Al mio amico Luca, che lavora a Trieste e magari ha già mangiato in questi posti (o magari no).
Ai carissimi amici del sabato sera, che si sono preoccupati per me.
Lo specifico subito: Trieste è una delle città più affascinanti che ho visitato, ed una delle più sottovalutate. Sarà impossibile dimenticare per me l’austera e composta decadenza di una città che (molti lo trascurano) è stata per cinquecento anni austriaca e solo per cento italiana, nonostante la lingua, da sempre, sia quella veneta; sarà difficile non pensare più all’eleganza dei quartieri centrali, squadrati, tipicamente asburgici; all’area dimessa, chiassosa, quasi “mediterranea” delle zone popolari e dei loro saliscendi. Alla rudezza delle aree industriali e portuali, che ricordano come la città sia stata il più importante (e forse l’unico) scalo portuale dell’Impero.
Trieste è una città in bilico, teatro di brutali scenari di guerra recente. Fredda, di poche parole ma coi cartelli stradali bilingue: qui inizia l’Oriente, e l’aria che si respira è davvero “diversa” , quasi estranea.
È automatico pensare che, date tutte queste peculiarità, la cucina sia particolarissima e mescoli tutte le atmosfere e le suggestioni fino a qui accennate; per scoprirla è necessario immaginare una coppia di viaggiatori in una fuga romantica, che alloggia dunque nella zona antica, a ridosso del Duomo e del ghetto ebraico; quartiere di saliscendi, tortuoso, abitato da persone schiette e caciarone. Il progetto di questa coppia è un rapido giro della città, in cerca non solo degli scorci da fotografia e delle testimonianze storiche, ma anche (e soprattutto) dei cosiddetti “buffet” ; se a Venezia abbiamo i bacari, piccole enoteche in cui, al bicchiere, si possono accompagnare degli antipastini, a Trieste il concetto si fa ancora più robusto: al cicchetto del bacaro si sostituisce il vero e proprio piatto del buffet, cucinato di buon mattino ed esposto in grandi piatti da portata. Il termine “buffet” sembra arrivato da queste parti con Napoleone: prima si parlava semplicemente di “spacéti” , piccoli spazi appunto in cui bere calici di ottimo bianco a prezzi stracciati e riempirsi anche lo stomaco, probabilmente come pretesto per bere ancora. In altre parole: girovagare a Trieste, dal punto di vista gastronomico, significa portare il bacaro tour alle estreme conseguenze dal punto di vista della quantità, in una città anche più misteriosa e gelosa dei suoi segreti.
È comunque coerente per la nostra coppia iniziare la mattinata inerpicandosi sul Colle di San Giusto: oltre a godere del migliore panorama possibile sulla città (e trovo adeguato iniziare una visita con un panorama) e a poter visitare la cattedrale, gioiellino romanico-gotico, ci si immalinconisce traversando il Parco della Rimembranza: vi trovano riposo i caduti triestini durante la prima guerra Mondiale. Il fatto è che i triestini, durante questo conflitto, combattevano per l’Austria. La guerra è orribile ed assurda ed è un luogo in cui, anche col sole, è impossibile non provare raccoglimento.
Del resto, la città tutta è malinconica: la zona sottostante, di piazza di Cavana, è formata da viuzze strette e piuttosto buie; all’ora di pranzo tuttavia c’è movimento e, tra i tanti buffet tipici, i viaggiatori hanno saggiamente scelto Siora Rosa (Piazza Attilio Hortis, 3), nato quasi ottanta anni fa. La struttura è quella solita e genuina del buffet triestino: ampi tavoli, personale cordiale ma non espansivo, cucina tipica; impossibile resistere alla tentazione del gulash, che qui si gusta come piatto unico con gli gnocchi di patate. Di origine ungherese, questo spezzatino a base di carne, patate e paprika ha rapidamente trasceso tutte le aree del grande Impero, diventandone un piatto simbolo (Praga, Vienna, Bolzano: ogni città ha la sua versione e sono tutte ottime); la variante triestina è poco brodosa e prevede, per osmosi col Mediterraneo, anche l’uso del pomodoro. Il piatto è commovente, come sapore, e sufficiente a saziare anche l’avventore con le migliori intenzioni.
A pochi passi da piazza di Cavana, un altro mondo: l’eleganza assoluta, che lascia atterriti, di piazza Unità d’Italia. Non è soltanto l’affacciarsi sul mare; è proprio il candore e la magnificenza degli edifici a renderla la più bella piazza d’Italia.
Oltre a celebrarla, ai nostri amici viene in mente una nozione che pochi ricordano: Trieste è la città del caffè. Proprio perché porto dell’Impero, qui sono nate le più fiorenti industrie di lavorazione e raffinazione di questo prodotto; i triestini fanno un uso di caffè smisurato e la qualità è, manco a dirlo, eccezionale. Proprio in piazza Unità una valida scelta è il Caffè degli Specchi: l’ambiente è elegante, il caffè non si discute ed imparerete presto che, a Trieste, in caffè si ordina in modo diverso dal resto d’Italia. Se si vuole un caffè normale, bisogna chiedere un “nero” ; se invece si preferisce un macchiato, va ordinato un “cappuccino” (proprio così). Chi, sprovveduto, ordina un “caffè macchiato” riceverà un caffè standard con un bicchierino di latte a parte. E via dicendo, gli altri segreti li tengo per me: trovo doveroso che anche il lettore sbagli e si veda preparare qualcosa di completamente diverso da quanto aveva pensato.
Incamminandosi verso nord, dopo aver lasciato Piazza Unità, si raggiunge il Borgo Teresiano: quartiere voluto dall’imperatore d’Austria Carlo VI, a trama ortogonale (forse il primo del mondo in tal senso), racchiude le principali attrazioni della città. Se non è questo il luogo per dilungarsi sulle chiese di quasi tutte le confessioni possibili presenti a poca distanza (greco-ortodossa, serbo-ortodossa, luterana, ebraica), è certamente il caso di osservare che, tra queste vie squadrate, si trovano alcuni tra i più rinomati buffet di Trieste, che rappresentano anche un’altra comunità fondamentale per le sue dinamiche storiche: quella slovena. Il simbolo, forse il più conosciuto, è Da Pepi (Via della Cassa di Risparmio, 3 http://www.buffetdapepi.it/), noto anche come “Pepi S’ciavo” (Pepi lo Sloveno) . Il fondatore, Giuseppe Klajsnic, arrivò in città nel 1897 e da allora il suo locale non ha più smesso di sfamare triestini di ogni generazione e ceto sociale, anche dopo la morte di Klajsnic nel 1944 durante i bombardamenti. Chi va da Pepi va per il piatto caldaia: bollito misto (e mitologico) in un pentolone ben visibile al centro del locale. Cotechino, carré, lingua, zampone, pancetta, testina, cragno (salsiccia affumicata del Carso) e la porzina, coppa di maiale. Il tutto condito con capuzi (crauti), senape dolce e cren grattugiata, una radice chiamata anche rafano. Senza dubbio simbolo della gastronomia triestina, il profumo caldo, persistente, intenso della caldaia credo sia una sorta di punto di arrivo per ogni gastronomo che si rispetti che si sia perduto da queste parti.
A poca distanza si trova Da Giovanni (via S. Lazzaro, 14 http://www.trattoriadagiovanni.com/), altro luogo storico, se possibile ancora più autentico e “popolare” rispetto a Pepi. Qui, oltre all’imperdibile prosciutto cotto in crosta di pane, da provare al mattino presto, il menu cambia in base alla disponibilità dei prodotti o all’umore del cuoco, ma con un caposaldo: cucina triestina senza fronzoli. La nostra coppia, ormai all’ora di cena, sceglie la jota come antipasto, una zuppa a base di crauti, fagioli e lardo, tipica dell’entroterra e, come portata principale, gli gnocchi di susine, rarissimo caso di piatto che può essere considerato sia un primo che un dessert. Di origine boema, introdotti dalla Slovenia durante il dominio austriaco, questi gnocchi vengono riempiti della susina intera, privata del nocciolo, di pane tostato e cannella e poi conditi con burro fuso. Sono buoni almeno quanto sconosciuti e dimenticati.
Giustamente sazi, i Nostri si concedono due passi per indugiare nella penombra di una piazza Unità che, con la sera, è diventata romantica. Tenendo presente due cose: che “Prosecco” è una frazione di Trieste e, soprattutto, che lo spritz è nato qui, dall’usanza austriaca di allungare il vino con l’acqua frizzante o la soda per stemperarne la gradazione (il verbo spritzen in tedesco significa, appunto, “spruzzare” ). Se si considera che i prezzi sono circa la metà dei drink milanesi, si capisce perché la coppietta tirerà un po’ più tardi del solito.
Prima di lasciare la città il giorno dopo, è doveroso non resistere al richiamo di una colazione a base di pasticceria triestina: come in ogni parte dell’Impero, i dolci hanno sempre avuto una grande importanza ed una cura raffinatissima da parte di chi li preparava. La pasticceria Pirona (Largo Barriera Vecchia, 12 http://pirona.blogspot.it/) conferma tutto questo: locale storico, piccolissimo, dall’arredamento chiaramente old-style, propone rigorosamente prodotti tradizionali. Essendo indecisi tra i presnitz (pasta sfoglia arrotolata ripiena di frutta secca, simile allo strudel), la putizza (ciambellone di origine sloveno ripieno di rum e cioccolato) e la pinza, pane dolce morbido e lievitato servito con la marmellata, la nostra coppia li acquista tutti, conservandoli per il viaggio con l’illusione che avanzeranno, per l’assaggio ad amici e parenti.
Oppure per conservarli per merenda, dato che all’ultimo potrebbero decidere di non tornare a casa e rimanere un altro giorno a Trieste. La città li ha fatti innamorare, le cose da fare non mancano (una per tutte, il castello di Miramare) e poi ci sono le osmizze, piccoli locali alla buona gestiti dai contadini, disseminati sulle colline ed indicati da frasche poste lungo la strada: qui si possono consumare prodotti tipici a seconda della disponibilità e della stagione. La cosa straordinaria? Che non ci sono orari di apertura fissi. Bisogna tentare la sorte e sperare in bene. Ma questa è necessariamente un’altra storia.
JOTA
(per quattro/sei persone)
300 gr di fagioli, rossi o borlotti
500 gr di crauti
100 gr di lardo
200 gr di pancetta affumicata
due patate grosse
cinque spicchi d’aglio
tre cucchiai di farina
una cipolla
cumino dei prati (detto anche “carvi” , non è il cumino classico)
alloro
sale, pepe
Dopo aver messo a bagno i fagioli una notte, scolarli e lessarli con tre foglie di alloro e 100 gr di pancetta. Dopo un’ora aggiungere le patate, continuando la cottura.
A parte rosolare l’aglio fino a doratura e aggiungere la pancetta tagliata a pezzettini. Una volta dorata anche la pancetta, unire i crauti lavati e scolati e un cucchiaio di farina per addensare (possibilmente mescolandolo a fiamma spenta). Insaporire con il carvi, salare, pepare e ultimare la cottura aggiungendo dell’acqua e lasciando sobbollire.
A parte preparare un soffritto con lardo, cipolla e un filo d’olio, lasciandolo ambrare.
Dopo aver ultimato la cottura dei fagioli e delle patate, passare metà del contenuto al setaccio e rimetterlo nel brodo di cottura. Aggiungere al tutto i crauti e il soffritto e continuare la cottura a fuoco lento per altre due ore.
(la ricetta è dell’Antica Trattoria Suban, altro locale di alto livello, sebbene più raffinato, che propone cucina tipica triestina)
Photo Credit:
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