cibo

Cibo di strada italiano parte 2

Ai miei amici Alex e Riccardo, per ovvi motivi.
Alla mia eterna nostalgia.

 

La prima volta che sono tornato a Palermo da adulto è stata proprio, più che per la città (sottovalutata e bellissima da fare impressione), per assaggiare o ri-assaggiare il cibo di strada. Era impossibile includerlo nell’articolo precedente a riguardo proprio perché troppo ampio, variegato e particolare. Lo street-food di Palermo, salvo rare eccezioni, esiste solo a Palermo ed è già più raro, o leggermente diverso, al di fuori dei confini della città.
Chiunque abbia la fortuna di recarsi qui si perderà tra vicoli bui, stretti e poco rassicuranti, imbattendosi poi in bellezze artistiche straordinarie. Sentirà i toni alti del vociare di una lingua difficile, gli odori forti di pesce, di fritto e della frutta fresca che, nei mercati, si trova dieci mesi l’anno. Le contraddizioni di una città che è asiatica nel traffico, africana nel clima e sudamericana nel caos e nel sottosviluppo di alcune zone.
Io stesso riflettevo, in una sera di inizio maggio seduto nella zona del porto antico, su quell’atmosfera indolente, osservando sugli edifici eleganti di una certa scura fierezza d’altri tempi, sulle persone gentilissime e disponibili poiché orgogliose di appartenere a qualcosa a cui io evidentemente ero ormai estraneo, sul mare cristallino che scorgevo da dovunque, sul cibo sopraffino a prezzi irrisori che trovavo in ogni dove e perfino sulle montagne cupe, cattive e minacciose che facevano da corona. Nonostante il caldo già asfissiante, il traffico che non si fermava mai e mi cullava col suo odore di smog mischiato a un blando profumo di fiori, avevo concluso che ero perdutamente innamorato di Palermo e della Sicilia, per sempre.

Il mio giro in solitaria nel centro storico, di un paio di giorni, inizia idealmente dai Quattro canti, il cuore della città; una piazza, formata da quattro edifici similissimi tra loro con la facciata concava, che divide idealmente i quattro quartieri storici della città. Dico “similissimi” perché chi è più attento scoprirà che uno non è altro che la facciata di una chiesa (S. Giuseppe dei Teatini). Prima di recarmi a Ballarò, il mercato pulsante, il più vasto e il più rinomato, passo quasi per sbaglio in piazza Pretoria, sede di una bellissima fontana e dell’ingresso di tre tra le chiese più significative: la chiesa della Martorana (ufficialmente: S. Maria dell’Ammiraglio), di rito bizantino;

77 Inside La Martorana, Palermo, Sicily

la chiesa di S. Cataldo, la più antica, con le sue cupole rosse di origine araba che caratterizzano lo skyline della città e la chiesa di S. Caterina, ora purtroppo chiusa per colpa dell’incuria e della cattiva manutenzione (ossia, per colpa di una città che si vuole male).

santa-caterina-church

Il mercato di Ballarò esiste da un migliaio di anni e non ha mai cambiato la sua ubicazione: nel quartiere povero, chiamato Albergheria, in pieno centro storico. Al di là delle primizie e del pesce freschissimo a prezzi irragionevoli per chi è abituato a Milano, si punta al cibo già cotto e, possibilmente, insolito. Mentre assaggio un cestino ripieno di piccole lumache di mare cotte in due modi, trifolate in aglio olio e prezzemolo ed in umido col pomodoro, vendutemi da un simpatico affabulatore che, spiegandomi come estrarle con le labbra dal guscio, indugia nel mimare oscenità (divertendosi), cerco il venditore di frattaglie. Ce n’è più di uno, ma io sono attirato dal signore che urla “BOLLITO! BOLLITO!” a squarciagola. In un attimo mi trovo seduto in una vera e propria stamberga, dietro il suo bancone e, sempre senza quasi rendermene conto, compare nel piatto una zuppa di interiora di manzo, chiamata “quarume” (“caldume” in italiano, dal nome della pentola in cui viene preparata). Il brodo è saporito, condito con carote, alloro e prezzemolo. Le interiora consistono nei quattro stomaci dell’animale, più l’ovaia e l’intestino tenue. Il sapore varia da pezzo a pezzo e si avvicina da quello più rassicurante della trippa a quello decisamente più complesso dell’ovaia. È da qui che si capisce chi fa sul serio.

QUARUME

Sempre a Ballarò, purtroppo in orari variabili e non sempre comprensibili, è possibile scorgere un signore con un cesto misterioso, coperto da un panno. Sta vendendo le frittole, forse il mio cibo di strada palermitano preferito. Le frittole sono gli scarti degli scarti degli scarti (e avete visto cosa mangiano, figuratevi cosa scartano): tutti i pezzetti di carne rimasti sulle ossa vengono staccati con un procedimento meccanico, bolliti nell’olio, liofilizzati, fatti poi rinvenire nello strutto al momento di servire ed aromatizzati con pepe, alloro, zafferano e una spruzzata generosa di limone. Il sapore ricorda lontanamente quello dei ciccioli, ma la consistenza è molto più morbida e gommosa; vengono servite o dentro un foglio di giornale (la “cartata”) o in un panino. Se le mangiassi tutti i giorni morirei dopo qualche mese, così come, se vedessi come vengono prodotte, probabilmente non le mangerei più. Ma fidatevi: le sognerete di notte dopo averle assaggiate.

Uscendo da Ballarò, dopo una rapida (ma non troppo) tappa alla Chiesa del Gesù, insignificante fuori e commovente all’internop057_0_1si punta ad un altro mercato storico, quello del Capo. Considerato dagli intenditori come il più autentico dei mercati cittadini (più di Ballarò), attraversa un periodo di decadenza, forse a causa della sua posizione più defilata. È in queste zone che si aggiravano i famigerati Beati Paoli, setta di vendicatori-giustizieri parte della leggenda popolare e narrati dalla penna di William Galt (vero nome: Luigi Natoli). Qualunque venditore vi racconterà la sua versione della leggenda e di quando, da bambino, irrimediabilmente si era trovato faccia a faccia con loro. Io mi perdo tra i venditori di frutta e spezie gustando, in un cestino di plastica, del polpo freschissimo appena bollito (se volete del limone in più non preoccupatevi: il mercante lo prenderà, furtivo, dalla bancarella affianco e lo taglierà al momento) prima di arrivare al mio obiettivo: il chiosco del signor Gioacchino.
Egli, commerciante d’altri tempi, racconta la sua storia mentre vi servirà un piatto di bollito misto: stavolta asciutto e con parti ancora meno nobili delle interiora contenute nel quarume. Orecchio, lingua, mammella, guancia e cartilagine della zampa di vitello; qui il piatto è chiamato “musso e carcagnolo” , il sapore varia dal sopraffino (lingua, guancia) allo straniante (la mammella) all’inesistente (gli altri pezzi), ma non importa: durante l’assaggio di questo cibo che più povero non si può, Gioacchino vi spiegherà che, come tutti, era un emigrante. Ma, nonostante il mestiere umile, è tornato perché secondo lui è meglio morire a Palermo rispetto che da un’altra parte.

Palermo-bollito-di-Gioacchino-q-480x480

Se poi gli state simpatici o dimostrate di essere intenditori, estrarrà da sotto il chiosco una parte decisamente più intima e particolare dell’animale, che vi offrirà sornione e maliardo. Non deludetelo.

Dopo aver vagato senza meta per un paio d’ore, in attesa della sera, decido di cenare alla Vucciria. Questo mercato, un tempo il più importante, di giorno è ormai ridotto a qualche bancarella sparuta, in un’atmosfera di degrado davvero infinito. Di sera avviene la metamorfosi: la piazza si anima, aprono localini di cui non si sospettava l’esistenza, arrivano venditori ambulanti di ogni genere. È la fumina a condurmi qui: ho massima stima di chi vende panini enormi e frutti di mare aperti al momento, ma sono qui per le stigghiole, altro mio cibo prediletto insieme alle frittole. Si tratta dell’intestino dell’agnello avvolto in un cipollotto e cotto alla brace: di gran lunga il miglior taglio che abbia mai mangiato alla griglia, selvatico, sapido, con retrogusto di griglia ma dolciastro. Il fumo della griglia è incredibile, la ressa è pressante ed i turni, in fila, non sempre rispettati. Ma la coda per le stigghiole è il miglior modo per passare la serata, facendo anche amicizie.

stigghiole

MAPPA DEL PRIMO GIORNO

Il giorno dopo, non sazio, riprendo il giro. Anche solo girovagando per mangiare, concedendomi dunque poche pause per le visite, riesco a malapena a farmi bastare due giorni. È per questo che approfitto di uno dei numerosi camioncini che vagano senza sosta proponendo i loro sfincioni (ne avevo parlato QUI), un misto tra pizza e focaccia condito con pomodoro, acciughe, cipolle, origano e caciocavallo. Il mio obiettivo è tuttavia Porta Carbone: in questa zona, adiacente al mare e al porticciolo chiamato Cala, esiste una gastronomia che vende quello che negli ultimi anni è diventato il simbolo dello street-food palermitano: il pani câ meusa (in italiano: “pane con la milza”). Non è certo l’unico negozio a proporlo; ma, a detta di molti, è il migliore o comunque il più rappresentativo della città. Il panino è condito con polmone, trachea e milza di manzo sbollentati e poi fritti nello strutto e può essere accompagnato con caciocavallo grattugiato (la versione “maritata”) o al naturale (la versione “schietta” , ossia nubile); francamente non mi entusiasma: sapore forte di fegato, maleodorante, filamentoso e unto. Ma c’è chi lo apprezza e, in questo caso, credo che siate nel posto giusto.

panemilza

Un pranzo del genere ha bisogno di essere smaltito: anziché la pennichella in albergo opto per prendere il sole al Foro Italico, ampia spiaggia erbosa adiacente a dove mi trovo ora. Quando il pani câ meusa è stato digerito è già pomeriggio e, dunque, ora di merenda. Spero non abbiate dimenticato che la Sicilia è famosa per un altro genere alimentare: la pasticceria.
Incamminandomi per corso Vittorio Emanuele, cardo della città, entro furtivamente in un bar che, su un cartello, scrive “oggi granita al gelso” . È il locale di Pino, gentilissimo e cordiale barista di altri tempi, che ci permette di assaggiare la granita al gusto di questi frutti di bosco, simili alle more ma più chiare ed oblunghe. Ottima da accompagnare con un bicchiere di freschissimo latte di mandorla.
Questo è solo il pre-merenda: continuando ad incamminarmi per il corso, non posso non sbalordirmi ogni volta passando davanti alla Cattedrale (foto in copertina) e, soprattutto, entrando nel Palazzo dei Normanni, dimora di Federico II. Non mi va di descrivere la Galleria Palatina al suo interno perché, semplicemente, bisogna visitarla. Neanche la foto rende giustizia.

palazzo-dei-normanni

A poca distanza si trova il vero obiettivo: la pasticceria di Salvatore Cappello. Maestro indiscusso nella nobile arte del fare dolci, vale la camminata per raggiungerla e, soprattutto, quella (altrettanto lunga) per tornare indietro, nonché l’ingresso in un quartiere non proprio rassicurante.
Perché scegliere tra cassata e cannolo se li si possono ordinare entrambi? Io però, cercando le rarità, opto per il gelo di mellone (in italiano: “gelatina di anguria”), un budino freddo a base di cocomero disponibile soprattutto nei mesi caldi (cioè da maggio a novembre).

GELO

Se invece capitaste in città in inverno, per certi versi la stagione migliore per visitarla, potreste optare per la sfincia di S. Giuseppe, frittella ricoperta di panna montata e frutta candita.

SFINCIA

Giustamente non sazio, mi avvio all’ultima tappa di questo weekend gastronomico, in cui ho mangiato praticamente tutto quello che un medico sconsiglierebbe, senza che i kilometri percorsi a piedi siano bastati a giustificare il tutto. È sempre difficile scegliere se cenare all’Antica focacceria S. Francesco (aperta nel 1832) o da Franco u’ Vastiddaru (in italiano: “Franco il paninaro”). Opto per il secondo perché un po’ meno turistico, ma le scelte sono similari; io sto cercando la frittura palermitana ai massimi livelli: le panelle, le crocchè, le arancine (al femminile a Palermo, mi raccomando). Occorre davvero spiegare di che cosa si tratta? Frittelle di farina di ceci servite col pane e crocchette di patate le prime due, un vero e proprio piatto l’arancina, ripiena di ragù molto denso o di altri condimenti più fantasiosi ma non tradizionali. Sono cibi che si trovano letteralmente dovunque, quasi sempre di ottima qualità, consumati in ogni momento della giornata.

PANE E PANELLE

MAPPA SECONDO GIORNO

Il vero dispiacere è non essersi fermati di più, per poter assaggiare gli stessi cibi in posti diversi, confrontarli, trovare le differenze o le preferenze. Per non essere riusciti a far colazione a base di brioche con gelato (possibilmente al gusto di gelsomino) sotto le palme di piazza S. Domenico, nei pressi della seconda chiesa di Palermo per importanza.

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Oppure, ancora, per non aver ancora percepito del tutto l’atmosfera di cui parlavo all’inizio, che non ho mai ritrovato prima e mai più ritroverò. O anche per non essersi forse ancora resi conto che un popolo che con materie prime così povere riesce a produrre ricette così incredibili ed inusuali è, semplicemente, un popolo di geni.

PANELLE

Propongo una ricetta semplicissima, nonostante la cucina siciliana (anche quella “di strada”) sia complessa e ricercata. Semplicemente, il cibo di strada è irriproducibile in casa: anche solo l’olio da frittura cambiato ogni dieci anni conferisce un sapore diverso.

(per sei persone)

500 gr di farina di ceci
1,5 litri d’acqua
mezzo cucchiaio di sale
prezzemolo tritato, pepe nero
olio di semi da frittura

Diluire la farina nell’acqua, aggiungendo il sale. Cuocerla a fuoco medio per qualche minuto, mescolando con una frusta in modo da scongiurare la formazione di grumi. La pastella ottenuta deve essere densa.
Aggiungere il prezzemolo tritato.
Versare poi la pastella in un contenitore dai bordi alti, coprirlo (anche con un panno) per fare raffreddare.
Tagliare il panetto a fette alte un centimetro e friggere in olio di semi bollente.
Servire in un pane morbido, tipo “mafalda” o anche come antipasto.

Photo Credit:
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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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