Premessa:
Il 5 febbraio del 1909 apparve in anteprima, su “La Gazzetta dell’Emilia” di Bologna, il manifesto del Futurismo scritto dal suo ideologo Filippo Tommaso Marinetti. Questo movimento artistico e culturale è uno dei pochi degli ultimi secoli che, nato in Italia, influenzò quasi tutti gli altri paesi europei ed interessò tutte le forme di espressione: dal cinema alla musica, dalla pittura alla letteratura, dal teatro alla gastronomia. È quasi superfluo sottolineare che ci occuperemo soprattutto di quest’ultimo punto.
Ai miei futuri lettori.
Il futurismo nacque in un periodo complesso: in pochissimo tempo nuovi modi di comunicazione, nuovi mezzi di trasporto e nuove esigenze hanno avvicinato enormemente le persone in un modo impensabile. Il futurismo ha dunque risposto al bisogno di velocità e di frenesia, assecondando quell’irrazionalità disordinata e vacua, creduta “progresso”, che avrebbe poi portato al fascismo e alla guerra. Non che il futurismo fosse prettamente un movimento fascista: come altre manifestazioni di quel tempo seguiva semplicemente l’isteria collettiva, senza poter essere collocato in un’ideologia troppo precisa.
(Giacomo Balla, velocità di automobile, 1913)
Così come venivano condannate dai futuristi “l’inattività, le vecchie ideologie” ed, in generale, il passato, veniva anche sbeffeggiata e combattuta la cucina tradizionale italiana. Ed era ovvio, in quanto settore fondamentale per la vita di tutte le persone e, in un certo senso, forma d’arte. Nacque così, nel 1931, il “Manifesto della cucina futurista”, seguito un anno dopo dal libro di ricette “Cucina futurista” e dall’apertura di due ristoranti (di Marinetti, ovviamente), uno a Parigi con lo chef Julies Maincave e la sua cucina “che mischiava cubismo e avanguardia” e l’altro a Torino chiamato “Taverna del Santopalato” e gestita dal cuoco Angelo Giachino.
Andando con ordine, nel “Manifesto della cucina futurista” leggiamo che
“l’uomo pensa, sogna e agisce a seconda di ciò che mangia, pur riconoscendo che in passato uomini nutriti male abbiano comunque realizzato cose grandi. Se il cibo deve contraddistinguere un popolo, bisogna investire nell’italica snella trasparenza spiralica di passione, tenerezza, luce, volontà, slancio, tenacia eroica. Prepariamo una agilità di corpi italiani adatti ai leggerissimi treni di alluminio che sostituiranno gli attuali pesanti di ferro legno acciaio”.
In altre parole, secondo i futuristi nella inevitabile distruzione finale vincerà il popolo più agile, più scattante, più abituato alla velocità. Il nemico pubblico numero uno era uno solo: la pastasciutta, che andava assolutamente abolita perché uccideva l’animo guerriero, virile e nobile degli italiani, diventati sia vittime della loro tradizione e sia degli spaghetti stessi, che generavano scetticismo generale troncando l’entusiasmo ed il desiderio di novità. In altre parole, questo orrendo “alimento amidaceo” generava “fiacchezza, pessimismo, inattività nostalgica, neutralismo”. Questo concetto era dimostrato sia dal Manifesto che da un medico napoletano amico di Marinetti, il dottor Signorelli, che avrebbe confidato a quest’ultimo che mangiando gli spaghetti si sarebbero provocati gravi squilibri a fegato e pancreas, dato che “la pasta non si mastica, ma si ingozza e quindi si digerisce quasi tutta in bocca”. Senza contare che a quei tempi l’Italia importava grano straniero e, mettendo al bando la pasta, si sarebbe dato più spazio al riso, prodotto ormai nostrano.
Dunque, niente spaghetti al pomodoro e simili, che “legavano gli italiani ai lenti telai di Penelope”. Ma cosa mangiavano i futuristi?
L’ambizione ultima era l’arrivare all’alimentazione chimica pura, mediante pillole, vitamine e grassi sintetici, lasciando da parte i “piaceri del palato” (definiti “quotidianismi mediocristi”), anche per diminuire il costo della vita e, di conseguenza, lavorare di meno. Nel frattempo, aspettando che il mondo fosse pronto a queste novità, erano stati compilati un elenco di regole ferree per il “pranzo perfetto” e (cosa che ci interessa particolarmente) numerosi menù con vere e proprie ricette.
Se il galateo prevedeva l’abolizione delle posate per il “piacere tattile prelabiale” di portare il cibo alla bocca con le mani, l’uso di profumi artificiali per favorire la degustazione (da mandare via subito dopo con dei ventilatori appositi), la musica di sottofondo tra vivanda e vivanda allo scopo di ristabilire la “verginità degustativa” e l’uso di strumenti tecnologici come le lampade a raggi ultravioletti per irradiare le vivande in modo da estrarne le proprietà attive, il menù della Trattoria Santopalato recitava, tra le altre portate, quanto segue:
– Antipasto intuitivo
– Brodo solare
– Mare d’Italia
– Tuttoriso
– Pollofiat
– Golfo di Trieste
– Aerovivanda
– Carneplastico
– Mammelle italiane al sole (dessert)
– Caffèmanna
Per chi non avrebbe saputo cosa scegliere, un bizzarro ma attento cameriere avrebbe illustrato man mano le varie portate. Non sono tanto i “cestini scavati nella buccia dell’arancio e ricolmi di salame di autentico porco e sott’aceti Cirio, il tutto trafitto da piccoli bastoni di grissini” dell’Antipasto intuitivo a stupire, quanto i bigliettini dentro le olive (come nei dolcetti della fortuna dei ristoranti cinesi) da sputare e leggere poi ad alta voce. Ovviamente con spirito di festa: al bando la malinconia, al bando il pessimismo dei passatisti della malora!
I lettori più attenti avranno notato sia il richiamo esplicito alla Cirio (industria italiana, da bravi autarchici) e sia a Trieste, città benvoluta perché simbolo dell’irredentismo e dell’allora ultima guerra. Proprio per questo avrei probabilmente ordinato un Golfo di Trieste, creato con un chilo di vongole sgusciate cotte in una salsa di aglio e cipolle, col riso aggiunto man mano, cotto ed accompagnato da crema alla vaniglia. Riso che si trova anche (ovviamente) nel Tuttoriso, piatto “virile nella forma” (secondo le descrizioni del menù stesso, illustrato peraltro da pittori famosi del movimento come Luigi Colombo detto Fillìa, Medardo Rosso) e condito con vino e birra caldi legati da fecola, uovo e parmigiano. Dopo l’intermezzo di Aerovivanda, magari da dividere con i commensali (su un tavolo inclinato ed apparecchiato a forma di aeroplano), in cui con una mano si afferravano frutta e verdura e con l’altra si accarezzavano tavole di vario materiale per una sensazione totale (accompagnati da musica di sottofondo), avrei certamente consigliato a tutti di lasciare spazio al Carneplastico, la vera “star” del locale. Forse il primo piatto della storia della cucina creato da un pittore (Fillìa), consisteva in una grande polpetta cilindrica di vitello ripiena di undici tipi di verdura diversi, “coronato da uno spessore di miele e sostenuto alla base da un anello di salsiccia che poggia su tre sfere dorate di carne di pollo”. Undici non è un numero casuale, ma il numero delle lettere che formano il nome “F. T. Marinetti”.
Un piatto leggendario, che voleva essere secondo l’inventore una “interpretazione sintetica degli orti, dei giardini e dei pascoli d’Italia” e che è stato ripreso da altre personalità interne al movimento: anche Enrico Prampolini, un altro pittore, ha sentito il bisogno di crearne una sua versione.
“Un mare equatoriale di tuorli rossi d’uova all’ostrica con pepe sale limone. Nel centro emerge un cono di chiaro d’uovo montato e solidificato pieno di spicchi d’arancio come succose sezioni di sole. La cima del cono sarà tempestata di pezzi di tartufo nero tagliati in forma di aeroplani negri alla conquista dello zenit.”
Infine il dessert: le Mammelle italiane al sole, ideate dalla pittrice Marisa Mori, erano due mezze sfere di pasta di mandorle, con al centro di ognuna una fragola fresca e, nel vassoio, chiazze di zabaione, panna montata guarnite con pepe o peperoncino. Un dolce che, dopo le portate precedenti, sarebbe apparso quantomeno confortante e ristoratore come sapore in sé. La cena terminava col Caffèmanna, d’orzo (quindi ancora autarchia) abbrustolito, addolcito con la manna (o mannite, linfa di un albero simile allo zucchero e prodotta in Sicilia) e “da servirsi molto caldo per dar modo ai commensali di raffreddarlo fischiandovi dentro ognuno le barzellette più congelanti”.
Una volta sazi, si doveva tenere conto di una cosa: tutti i termini stranieri erano banditi. Il cocktail era la “polibibita” ed il dessert il “peralzarsi”. Da ordinare al “quisibeve”, il bar.
Cosa ha lasciato la cucina futurista? Sicuramente alcune innovazioni. Improponibile su larga scala, ignorata da molti, è stata più un fatto di costume e di stravaganza che una moda vera e propria. Però ha ispirato certi concetti dell’alta cucina: dalla ricerca tecnologica degli utensili all’uso smodato di additivi chimici e, soprattutto, all’impiattamento che ha iniziato a cercare giochi di forme e di colori più vicini all’opera d’arte che alla portata vera e propria e più attenti al dettaglio e ai colori. Insomma, un certo gusto per la sperimentazione ed un certo coraggio da parte dei nuovi chef del secondo dopoguerra, dato che tutti i tabù erano ormai stati distrutti.
Tuttavia… Tuttavia esiste una foto, rubata a Filippo Tommaso Marinetti (il vero deus ex machina di tutta la nostra storia) seduto ad un tavolo del ristorante Biffi di Milano, mentre consuma il pranzo in modo alquanto vorace. Non vi dico cosa stava mangiando, perché è troppo bello per essere vero e la foto è più che sufficiente.
Quindi, dimenticavo: cosa ha lasciato la cucina futurista? Anche la giusta e sacrosanta derisione popolare, accompagnata dallo slogan
“Marinetti dice Basta! / Messa al bando sia la pasta /
Poi si scopre Marinetti / che divora gli spaghetti!”
SPAGHETTI AL POMODORO E BASILICO
Il “piatto” di pasta italiano per eccellenza, che nessun cialtrone potrà mai sconsacrare.
(per quattro persone)
320 gr di spaghetti
40 pomodori datterini maturi (preferiteli ai ciliegini)
tre spicchi d’aglio
olio extravergine d’oliva
tre foglie di basilico fresco
pepe nero (che, a differenza del peperoncino, dà un piccante non acido)
sale
Incidere i pomodorini con una croce dove era attaccato il picciolo e tuffarli in acqua bollente per 30 secondi. Poi scolarli e irrorarli di acqua fredda. Saranno così molto più facili da sbucciare.
Una volta sbucciati tagliarli in quattro e metterli da parte. Nel frattempo soffriggere tre spicchi di aglio in camicia, schiacciato, nell’olio caldo per al massimo un minuto. Toglierli ed aggiungere i pomodori, che devono sfrigolare e caramellare, i primi tre-quattro minuti a fuoco alto e poi moderato, per altri sei o a seconda di quanto vogliate il sugo asciutto. Quasi a fine cottura aggiustare di sale: non dovrebbe essere necessario lo zucchero perché i datterini hanno una dolcezza naturale. Sempre quasi a fine cottura, mettere cinque foglie di basilico intere e lavate. A fiamma spenta aggiungere le altre cinque foglie, spezzettate grossolanamente a mano e una spolverata di pepe. Amalgamare poi con gli spaghetti, cotti leggermente al dente.
Photo Credit:
Troppa Trippa
Arte.it
Franco Bellino
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Marie Claire
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Scatti di Gusto
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