Molti di voi avranno sicuramente assaggiato, in una delle tante gastronomie turche, il panino “kebab” , chiamato spesso “doner kebab” o, più raramente, “dürüm” . Quanti si sono chiesti quale fosse la storia di ciò che stavano mangiando o l’origine stessa del piatto e la sua diffusione?
Bisogna tenere a mente due concetti fondamentali: il primo è che, nella tradizione culinaria turca, per “kebab” si intende genericamente la carne cotta allo spiedo o grigliata condita in vari modi; dunque ce ne sono decine di tipi diversi.
Il secondo è che il kebab da passeggio, in un panino o in una piadina, è nato a Berlino negli anni ’70 e dunque non appartiene né alla tradizione turca né genericamente a nessuna tradizione particolare. E che, salvo i rari casi in cui la carne viene preparata artigianalmente (ne conosco uno solo a Milano, Anatolia in via Giambellino 15; ce ne saranno altri ma non credo tantissimi), si tratta di materia prima di bassa qualità, carne di animali vecchi con un eccesso di sale e spezie per dare sapore, arrivata in blocchi surgelati dalla Turchia.
Eppure “kebab” non è nemmeno un termine turco: deriva da “kabap” , vocabolo persiano che significava pressappoco “arrostito” . I popoli turchi, originari dell’Asia centrale, arrivarono in Medio Oriente intorno all’anno mille creando uno Stato che sarebbe poi diventato fondamentale per quell’area ed anche per gli equilibri europei (l’Impero Ottomano, crollato nel 1922), sui territori prima bizantini e in maniera minore arabi e persiani. Come sempre accade, quando un popolo nuovo sottomette genti con una tradizione consolidata e millenaria ne assorbe la cultura, sia per legittimarsi sia per una sorta di “ammirazione” . Dunque i turchi si appropriarono di questo stile persiano nato secoli prima e diffuso in tutto il Medio Oriente, di arrostire la carne lentamente su uno spiedo verticale, creandone poi le diverse varianti regionali tra cui le kofta kebab, carne macinata e rosolata a forma di polpetta allungata.
Cambiamo scenario: mesi fa mi trovavo a Lubiana, gradevole ed elegantissima capitale della Repubblica di Slovenia, ex-Jugoslavia, in un ristorante un po’ nostalgico e un po’ kitsch la cui televisione, in un angolo, trasmetteva soltanto immagini delle Olimpiadi Invernali tenutesi a Sarajevo nel 1984. Ho ordinato ćevapčići (si legge, press’appoco, “csevapcicsi”). Perché recarsi in un locale bosniaco in Slovenia? Perché questa pietanza dal nome così oscuro e difficile da pronunciare? Non notate che ha una certa assonanza con “kebab” ?
La storia dei turchi nella penisola Balcanica è durata circa trecento anni ed ha lasciato conseguenze dolorose; le terre da loro invase a partire dal 1400, a spese dei bizantini di lingua greca e cristiano-ortodossi, godettero prima di una tolleranza religiosa da parte dei nuovi arrivati, che si tramutò presto in irrigidimento e conversioni di massa: intorno al 1700 quasi tutta la popolazione era stata obbligata a diventare islamica. Di questi anni è anche la celebre battaglia di Vienna in cui gli Ottomani, dopo aver assediato l’attuale capitale dell’Austria, furono sconfitti e che, in caso di esito diverso, avrebbe per sempre cambiato le sorti della storia d’Europa e anche del Mondo.
Da quel momento le fortune turche in Europa Orientale mutarono: molti territori furono perduti e molte nazioni, alcune in vita ancora oggi come la Serbia, divennero indipendenti ritrovando anche la loro vecchia religione ortodossa.
Tuttavia i Balcani, come disse Sergio Tavčar, sono “uno stato d’animo, più che una regione geografica” ; e quindi rimase una nutrita minoranza di persone, circa due milioni, che continuò a professare la religione musulmana soprattutto nell’odierna Bosnia e che per molti versi può essere considerata diretta discendente dei turchi, facilmente riconoscibile anche dai cognomi: il più celebre è quello del calciatore Ibrahimović, nato in Svezia ma di origini turco-bosniache.
Questa minoranza, come molti sapranno, è stata la più colpita dall’odio etnico che ha portato alla guerra negli anni ’90, culminato nel massacro della città di Srebrenica (di cui quest’anno ricorre il ventesimo anniversario) in cui furono uccise ottomila persone che avevano la sola colpa di professare la religione di Maometto.
Tuttavia come è sempre accaduto la gastronomia si evolve mescolando tutto ciò che incontra: i “combattenti per la libertà” , coloro che ora chiameremmo “partigiani” contro i turchi (gli hajdučki) conservarono la tradizione del kebab degli invasori, in particolare delle kofta kebab, carne prima macinata e poi cotta allo spiedo, condita con le loro spezie ed accompagnata alle loro salse. Ne conservarono perfino il nome, che divenne “ćevapi” (ćevapčići è un diminutivo, come dire “i piccoli kebab”) e si diffuse per tutto il resto di quella che, per qualche decennio, fu chiamata Jugoslavia. E che è, tuttora, il piatto di questa terra più conosciuto ed imitato all’estero, arrivato anche a Trieste. O a Lubiana, città di lingua slava ma austriaca nel cuore, in cui dopo aver letto questo articolo capirete perché è perfettamente logico (dopo un’abbondante porzione di ćevapčići a prezzo incredibile che avrete di sicuro avanzato) ordinare al banco un caffè alla turca, buono al punto da commuovere, senza essere presi per visionari.
ĆEVAPČIĆI
(per due persone)
Gli islamici non mangiano maiale: è dunque preferibile usare carne di agnello o al limite di manzo o mescolate insieme. La mia versione non prevede il maiale né il goccio di vino bianco nell’impasto, tuttavia trovo che il gusto personale sia la base di ogni ricetta (inoltre, non tutti gli jugoslavi sono islamici e quasi ogni famiglia ha la sua ricetta).
INGREDIENTI:
150 gr di macinato di manzo
150 gr di macinato di agnello
mezzo spicchio d’aglio
un quarto di cipolla bianca tritata finissima
un cucchiaino abbondante di paprika dolce
mezzo cucchiaino di cumino
farina 00, sale, pepe nero
Create delle polpette impastando ed amalgamando con le mani la carne, l’aglio, la paprika, il cumino e il sale a piacere. La forma deve essere allungata, cilindrica, di circa 4 cm di lunghezza.
Infarinate leggermente le polpette e lasciatele riposare in frigo per almeno un’ora.
Vanno cucinate alla griglia o al limite in padella già riscaldata, non fritte: devono rosolare. Prima di rigirarle assicuratevi che siano ben cotte in un lato, altrimenti si spezzerebbero (e perderebbero la loro peculiarità: devono essere croccanti fuori e morbide dentro).
Si accompagnano alla perfezione con l’ajvar (sapevate che è una salsa a sua volta di origine turca e che il nome ha la stessa origine di quello del caviale? No?). Il contorno alternativo sarebbe a base di cipolle crude tagliate a pezzi grossolani: sicura sciccheria nella ex-Jugoslavia, ma dubito che qui da noi farebbe furore.
SALSA AJVAR
(per due persone)
INGREDIENTI:
un peperone rosso
un peperoncino piccante
mezza melanzana (in ogni caso il rapporto col peperone deve essere di 1:2)
mezzo spicchio d’aglio
olio e sale
Abbrustolite peperone e melanzana interi in forno a 220° , girando ogni tanto, fino a che la melanzana non si potrà scavare con un cucchiaio e la pelle del peperone, bruciata, non verrà via facilmente. Sbucciate entrambi gli ortaggi, tritandone poi la polpa e facendola rosolare in una pentola con olio d’oliva con l’aglio e il peperoncino tagliato a pezzetti. Una volta rosolata abbassate la fiamma al minimo facendo asciugare per almeno un’ora, mescolando spesso, fino a che il tutto non diventi una crema. Poi aggiusterete di sale.
Il mio tocco è aggiungere al tutto, ad inizio cottura in pentola, dei pomodori grigliati tritati e sbucciati.
Per saperne di più sul ruolo dei Turchi in queste terre potete leggere “Storia dei Balcani” di Edgar Hösch, 2006, edizioni Il Mulino.
Photo Credit:
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/32/Cevapcici.JPG
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