Bacaro tour

Bacaro tour alla scoperta della cucina veneziana

ai cari amici del sabato sera, con la speranza di fare presto questo viaggio insieme; e ad Alice, che mi ha già accompagnato.

Mettiamo che una sera si venga presi da una nostalgia fortissima per la città più spettacolare e teatrale del mondo; che si ripensi, con lo sguardo perso, ai vicoli, ai canali silenziosi, all’odore salmastro, alle chiese maestose nascoste dietro ad un angolo o lussureggianti a pelo d’acqua. Che poi si realizzi di quanta fortuna si abbia a sapere che ci sono due Venezie: quella turistica, standard, delle gondole, delle maschere souvenir, dei tour organizzati che si concludono in ristoranti in cui ti pelano (e mangi, al massimo, discretamente) ma con una vista così romantica. E quella autentica dei quartieri, anzi dei sestieri, operai e popolari, appena sfiorati dai visitatori ma in cui si trova il vero spirito della città e, soprattutto, la cucina tipica con i suoi sapori e le sue usanze straordinarie.

Premetto che questa non vuole essere la guida definitiva al “Bacaro Tour” : avrei dovuto provarli tutti e, purtroppo, non è ancora accaduto, dato che sono moltissimi. Questo è il mio Bacaro Tour, un riassunto dei locali che ho scelto e visitato; auguro ad ognuno di poter raccontare il proprio.

Nell’era di internet ormai non è nuovo il termine “bàcaro” : piccole enoteche con pochissimi posti a sedere in cui si può consumare vino al calice a prezzi bassi, accompagnandolo coi “cicchetti” , ossia monoporzioni di cibo, affini alle tapas spagnole, di vario costo e fattura. Non sono qui per dilungarmi sull’etimologia del termine (“bacaro” può derivare dal dio Bacco, o da bacara, “baldoria” in veneziano), quanto per proporre un modo alternativo di visitare Venezia, facendo proprie le usanze di chi davvero ci vive e la vive, assaggiando cibi incredibili senza tuttavia perdersi nessuna delle attrazioni e, anzi, scoprendole da un altro punto di vista.

Immaginiamo un paio di giorni (attenzione, evitate la domenica: i locali non turistici sono quasi tutti chiusi) arrivando alla Stazione Santa Lucia e girando la città soltanto a piedi, dopo aver prenotato una stanza in zona Cannaregio/Strada Nuova, economica ma vicina al centro, ad una condizione: non entrare in nessun museo e non consumare pasti completi in un ristorante, bensì soltanto cicchetti. I veneziani vecchio stampo, nei giorni liberi, passano il tardo pomeriggio girando una decina di bacari e consumando, in ognuno, un’ombra di vino bianco e uno-due cicchetti per accompagnare. Noi vogliamo fare così: trovo sia l’unico modo per innamorarsi definitivamente di Venezia.

Sarebbe troppo facile, una volta lasciata la stazione, incamminarsi verso nord-est nella zona delle Fondamenta Ormesini: una zona sicuramente fuori mano (un pregio), ma piena di locali da aperitivo e quindi, involontariamente, diventata modaiola. Evito volutamente: chi non resiste troverà di certo soddisfacente il piatto di pesce misto, composto al momento, al Paradiso Perduto (Fondamenta della Misericordia, 2540) accompagnato da uno spritz. Che, non tutti lo sapranno, è nato a Venezia.
Così come sarebbe suggestivo, ma non c’è il tempo, perdersi nelle vie affascinanti e a volte spettrali del ghetto Ebraico e nelle sue pasticcerie. Ma questa è, per forza di cose, un’altra storia.

Noi invece puntiamo verso est, seguendo Strada Nuova; i temerari possono iniziare con un cartoccio di frittura di pesce da asporto al Frito-Inn (Rio Terà Campo San Leonardo, 1587) o, ancora meglio, con delle polpettine di baccalà. Non è altro che merluzzo salato, ma se ne fa un uso smodato in Veneto, come vedremo: forse perché il mercante che ne introdusse il consumo in Italia, Pietro Querini, era veneziano. Anche questa è un’altra storia: chi mi segue ha la garanzia che ne parlerò presto.

Il locale è poco più di un chiosco spartano, ma la qualità è assoluta ed anche il primo calice di vino, pardon: la prima ombra, si fa apprezzare con disinvoltura. Proseguendo il cammino non si può non fare una rapida tappa alla Ca’ d’Oro (ma, per tutti, è “Alla Vedova”), Calle del Pistor, 3912: celebre, antico, frequentatissimo. I cicchetti non si discutono, io tuttavia consiglio, oltre alla seconda ombra di bianco, due polpettine di carne, definite da molti le migliori della città; impossibile stabilire se siano nate da queste parti. Certo è che in Veneto se ne fa un consumo smodato.
È quasi ora di pranzo: prima di fare onore a quello che, per me, è almeno tra i tre migliori bacari di Venezia, passeremo davanti alla bellissima facciata della chiesa di S. Maria dei Miracoli, fermandoci ad osservarne i bellissimi marmi e, poco lontana, entreremo al volo nella Basilica dei SS. Giovanni e Paolo, ricca di monumenti funebri dei Dogi e situata in una piazzetta spettacolare.

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Dicevamo, è passato mezzogiorno: El Sbarlefo (Sestiere Cannaregio, 4556) è il locale ideale. Non solo per la cordialità del personale o per le persone assolutamente genuine e amichevoli che ho sempre incontrato, ma semplicemente perché il cibo è buonissimo, autentico e a prezzo accessibile. Qui la cucina veneziana è al top, è impossibile consigliare un solo cicchetto. Tanto più che vengono serviti non sulla classica fetta di pane, ma su un crostino di polenta abbrustolita bianca o gialla.
C’è di che commuoversi: dalle sarde in saor (sardine fritte con cipolla in agro: da modo di conservare il pesce a ricetta gourmet) all’aringa affumicata al baccalà mantecato, che in realtà è stoccafisso, ridotto in crema e montato con olio d’oliva, senza latte come l’antica ricetta vuole. Assaggiare queste ricette vi renderà possessori di un segreto che non vedrete l’ora di tramandare: voi, e non tanti altri, sapete che quel che state gustando si può trovare solamente in queste vie e vorrete ritornare, per condividerlo con le persone a cui volete bene.

Trovo poi abbastanza normale, una volta sazi, voler approfittare del primo pomeriggio per spingersi fino in Piazza S. Marco e godere di quell’atmosfera e di quella luce sicuramente irripetibile. Tuttavia, durante il tragitto, raccomando due soste: la prima, con la premessa che chi dice di amare il cibo e la cucina ma non la cultura sta semplicemente mentendo, è alla Libreria Acqua Alta; originale a dir poco, con delle gondole al posto degli scaffali, migliaia di volumi rari o usati o antichi, una finestra posteriore che si apre su un canale dimesso e secondario e tanti gatti che, placidi, dormono sopra i libri o passeggiano di fianco ai clienti. Un ambiente saturo, singolarissimo, che per me vale di più di tante chiese o pinacoteche.

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La seconda è per una rapida fotografia alla Scala Contarini del Bovolo, un po’ defilata e difficile da trovare, ma elegantissima, quasi “da cartolina” . Se doveste avere un buco nello stomaco potete provare l’osteria Al Portego (Calle della Malvasia; 6014) a poca distanza; io non ho ancora avuto la fortuna di farlo, ma una delle poche persone di cui mi fido ha garantito per loro (e consigliato un crostino con le seppie al nero).
L’aver indugiato nei dintorni di Piazza San Marco (Palazzo Ducale, Ponte dei Sospiri, Campo S. Moise) avrà fatto volare il pomeriggio e fatto ritornare l’appetito: è l’occasione di attraversare il Canal Grande col vaporetto o sul Ponte dell’Accademia (un po’ più distante, però) e, col pretesto di una tappa a S. Maria della Salute, la seconda chiesa più bella di Venezia, recarsi a fare aperitivo al Cantinone (già Schiavi), detto anche “Bottegon” (Fondamenta Nani, 992). La reputazione è altissima; gestito dalla signora Sandra De Respinis, di più di settanta anni, propone le ricette tradizionali rivisitate anche in versione gourmet: tartare di carne e cacao amaro, gamberi in saor, tonno e porri, rosso d’uovo con petali di fiore… . Questa non è più cucina tradizionale, forse: ma è cucina eccellente, e la famiglia della signora gestisce il locale da generazioni.
Se poi si fosse integralisti, si può ripiegare sui tramezzini; sono nati a Torino nel 1925 (al Caffè Mulassano; ce ne sono tante di storie da raccontare, vero?) ma per varie ragioni il Veneto, e quindi Venezia, se ne è impadronito: a poca distanza dal “Bottegon” abbiamo Toletta (Dorsoduro, 1191), che ha come piatti forti il tramezzino al salmone e quello agli straccetti di cavallo.

Venezia è una città che ha avuto il suo apice nel Settecento: è normale che le luci si spengano piuttosto presto. Del resto noi non siamo certo qui per la movida.

Mappa giorno 1

Dopo essersi svegliati non troppo di buon’ora (di vino, del resto, ne abbiamo bevuto parecchio), la visita prosegue nella parte ovest della città. È magari un luogo comune che a Venezia ci sia una bellissima piazza, S. Marco, i suoi dintorni, il Ponte di Rialto e poi soltanto dei vicoli suggestivi. Nulla di più sbagliato: la zona occidentale è per molti versi la più autentica, popolana e “popolare” , nel senso genuino del termine.
Partiamo traversando proprio il Ponte di Rialto; chi ha notato che la fermata del vaporetto precedente si chiama “Rialto-Mercato” ha già capito: la zona, soprattutto la sera, è affollatissima ed è qui che si ha la più alta concentrazione di bacari. Noi però iniziamo con un tramezzino: il Bar Rialto (Ruga degli Orefici, 30125), a dispetto del nome acchiappa-turisti, è considerato imperdibile da molti veneziani; impossibile rimanere indifferenti al tramezzino con gorgonzola, porchetta e crema di zucca.
Ci si sarà sicuramente saziati e si potrà aspettare l’ora di pranzo, ed anche un po’ d’oltre, in tranquillità: questa è zona d’arte, dalla celebre ed imperdibile Basilica di S. Maria dei Frari, seconda della città per importanza, in stile gotico e quindi diversa da quello che ci si aspetta a Venezia alla dimenticata chiesa di S. Pantalon, che ospita sul soffitto la tela più grande del mondo: 443 metri quadri, dipinta da Gian Antonio Fumiani. Oltre alle due Scuole Grandi, edifici appartenenti a confraternite laiche di cittadini benestanti. Una, quella di S. Rocco, ospita un ciclo di tele del Tintoretto; secondo chi scrive si tratta del pittore italiano migliore del ‘500. E considerando gli artisti italiani vissuti nel cinquecento, si capisce la portata dell’affermazione. L’altra, dedicata a S. Giovanni Evangelista, è forse meno interessante, ma ha una facciata da copertina.

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Si diceva dei bacari della zona: trascurarne uno rispetto ad un altro sarebbe irrispettoso. All’Arco (Calle Arco, 436), che offre cicchetti a base di frutti di mare e spettacolari mini-panini con salsiccia di manzo e senape? L’osteria Alla Ciurma (Calle Galeazza, 406), in cui oltre alla cortesia del personale mi colpì il baccalà fritto e il crostino coi calamaretti spillo? Oppure la Cantina do Mori (S. Polo, 429), il più antico bacaro della città, già frequentato da Casanova? È giusto e doveroso che ognuno di voi, vagando quasi a caso, trovi il profumo e la sensazione che lo spingano a scegliere.
La cucina veneziana, in fondo, è una cucina povera basata sul pesce azzurro e i piccoli frutti di mare; regnano la stagionalità, il caso, quel che il mare ed il clima regalano. In primavera non inoltrata e in autunno non bisogna ad esempio farsi sfuggire le moeche fritte, ossia dei granchietti che, per via della muta, sono senza il carapace e vengono serviti fritti. Una prelibatezza: entrate, entrate in qualsiasi locale sulla cui lavagna all’ingresso ci sia scritto “oggi moeche” .
Infine, ritornando alla Stazione Santa Lucia, non molto distante e prevedendo di fare dieta nei giorni successivi, si può rinforzare con il fritto: Acqua & Mais (Campiello dei Meloni 1411,-1412) propone frittura di pesce impanata in farina gialla, o le schie (piccoli gamberetti che si pescano solo qui, nella Laguna Veneta) quando reperibili.

Questo nostro mini-tour termina qui. È logico che seguirlo alla lettera sarà impossibile: ognuno ha i suoi tempi, qualche locale potrà essere chiuso o la pioggia o il troppo caldo potrebbero ostacolare. L’importante è, al ritorno, essere consapevoli di aver visitato luoghi bellissimi ma anche di aver scoperto una tradizione culinaria sottovalutata, inaspettata, poco conosciuta e che potrebbe scomparire tra non troppi decenni.

Mappa giorno 2

Consiglio vivamente questo articolo di Silvana Di Puorto, con una lista di bacari sicuramente più esaustiva della mia. Invito chiunque a creare il suo itinerario personale, a provarlo e ad amare Venezia.

Inoltre:

– Cicchettario, di Alessandra De Respinis (On Demand Editions). La leggendaria gestrice del “Botegon” propone 70 ricette di cicchetti, dalle più antiche alle novità. Illustrazioni all’altezza.

– La guida di Corto Maltese alla Venezia nascosta, di Hugo Pratt. In un fumetto un itinerario incredibile alla scoperta del lato oscuro e nascosto di Venezia. Sicuramente uno dei miei sogni sarebbe un bacaro tour col marinaio Corto Maltese.

SARDE IN SAOR
(ricetta del venerabile e veneto chef Carlo Cracco, per quattro persone, leggermente adattata per il mio gusto)

24 sarde
due cipolle bianche
40 gr di uvetta messa a bagno prima in un bicchiere di acqua calda
40 gr di pinoli già tostati
una foglia di alloro
due bacche di ginepro
100 gr di vino bianco (Gewürztraminer o Müller Thurgau)
100 gr di aceto di vino rosso
un cucchiaio di miele non troppo forte
olio d’oliva, sale, pepe
farina 00
olio di semi per frittura

Tagliare le cipolle a fettine sottilissime facendole sudare in una padella con l’olio (rosolarle pochi secondi a fuoco alto con l’olio caldo e poi abbassare la fiamma al minimo: devono appassire e non soffriggere). Unire poi l’alloro, le bacche, l’uvetta e i pinoli. Subito dopo sfumare col vino; quando sarà evaporato anche con l’aceto. Una volta evaporato anche l’aceto aggiungere il miele e coprire con acqua, facendo asciugare a fuoco moderato. Si otterrà una marmellata di cipolle piuttosto acida, che verrà aggiustata di sale e pepe.

Pulire le sarde togliendo interiora e testa e aprendole a libro: passarle nella farina 00 leggermente salata cospargendole bene e friggerle in olio di semi già molto caldo. Una volta fritte le sarde, si prenda una teglia di medie dimensioni creando uno strato di marmellata di cipolle, sopra cui verranno adagiate le sarde. Una volta finito lo spazio, coprire le sarde con altre cipolle e via, a strati, fino ad esaurire il pesce. L’ultimo strato deve essere, in ogni caso, di cipolle.

Far riposare in frigo almeno una notte e servire il giorno dopo, a temperatura ambiente.

 

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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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