Il punto di arrivo di quel che sto per raccontarvi è New Orleans, leggendaria città americana in cui si fondono il blues, il jazz e le tradizioni francesi, spagnole ed africane; chi ha visto uno dei più recenti film Disney a cartoni, “La principessa e il Ranocchio” ha già capito l’ambientazione: paludi, boscaglia, voodoo, superstizioni arcaiche ed affascinanti. Un mix culturale e linguistico che, almeno in America, ha pochi eguali.
Vi siete mai chiesti perché ad esempio la capitale della Louisiana, stato in cui si trova New Orleans, ha un nome francese (Baton Rouge)? O perché sia una delle poche città statunitensi in cui i turisti si recano apposta per assaggiarne la cucina?
Si tenga conto che gli Stati Uniti, prima di George Washington e dell’indipendenza nel 1789, hanno avuto quasi trecento anni di storia in cui erano veramente una terra selvaggia, poco esplorata e ritenuta molto meno interessante rispetto al continente Sudamericano. Insomma, realmente un “nuovo mondo” . In questi secoli, di cui non tutti conoscono i dettagli, gli inglesi erano soltanto uno dei tanti popoli interessati a stabilirsi nella zona e forse, almeno all’inizio, neanche i più motivati a farlo; gran parte di quei territori erano o spagnoli, soprattutto il sud e l’ovest, o francesi (l’attuale Canada e buona parte delle Grandi Praterie); si trattava generalmente di colonie povere, in cui la popolazione viveva di caccia, agricoltura e commercio di pelli e canna da zucchero.
Se si tiene presente che, soprattutto a sud, erano ancora numerosi i nativi (i cosiddetti “indiani” ) e già ampiamente presenti gli schiavi deportati dall’Africa, si comprende come il miscuglio di etnie e di popoli fosse rilevantissimo: è da qui che nasce la definizione di “creoli” , una nuova popolazione che ha assorbito l’identità e le caratteristiche di tutte queste culture senza, in realtà, rappresentarne più nessuna in particolare. Si trattava probabilmente del primo esempio di civiltà con espressioni tipicamente europee sviluppatasi fuori dall’Europa.
Erano anni di guerre continue, spesso ingiustificate ed arbitrarie, con l’unico scopo della supremazia nella zona: la Guerra dei Sette Anni (1756 – 1763), tra Francia e Gran Bretagna ma combattuta anche nei possedimenti coloniali rappresenta la svolta vera di questa storia. La vittoria britannica fu netta e rappresentò l’inizio del loro dominio sul continente (che portò, poi, alla Rivoluzione Americana e alla nascita degli Stati Uniti); al contrario, l’esperienza francese nel Nuovo Mondo si chiuse definitivamente qui: i territori rimasti furono via via ceduti o persi nei decenni successivi.
In Acadia, ad esempio, una regione sull’Oceano Atlantico che ora fa parte del Canada, vivevano dei fieri discendenti di coloni francesi che si sono opposti fino all’ultimo ai nuovi dominatori inglesi, anche dopo la conclusione della guerra; per punizione furono espulsi dalla loro terra ed obbligati ad una migrazione forzata di migliaia di chilometri fino a quella che sarebbe dovuta diventare la loro nuova casa: l’attuale Louisiana, ed in particolare le zone paludose del delta del Mississippi intorno a New Orleans (che, nel frattempo, sempre per le conseguenze della Guerra dei Sette Anni era passata alla Spagna). Sono loro i cajun, da pronunciarsi pressappoco “keigiàn” , che insieme ai creoli di cui si è parlato sopra getteranno le basi per una delle cucine più incredibili ma sconosciute di quella parte del mondo.
Dicevamo, dunque: una zona complessa, caldissima, paludosa, selvaggia, abitata da genti diverse (alcuni costretti ad essere lì, altri no) le cui tradizioni ed usanze si sono fuse per creare qualcosa di nuovo. Una fusione che non deve essere certo stata semplice o immediata: l’essere umano è portato a cercare dei punti fermi e a conservare il suo bagaglio culturale soprattutto nei contesti a lui non familiari. Avviene in tutto: nel vestiario, nelle festività, nella musica e soprattutto nella cucina.
Ad esempio nel tentativo degli spagnoli di riprodurre la paella nel Nuovo Mondo: il riso non era un problema, le verdure nemmeno. Lo zafferano sì: per questo fu sostituito dal pomodoro, tipico di quelle zone, economico ed in grado di dare colore e retrogusto al piatto; allo stesso modo i gamberi, di cui quel mare è pieno ancora adesso, hanno reso superflui gli altri frutti di mare.
È inoltre una conseguenza abbastanza ovvia che i neri, una volta scoperta questa ricetta economica ed estremamente flessibile, in cui alla base di riso, gamberi e pomodoro si poteva aggiungere quel che era possibile trovare (tacchini, alligatori, scoiattoli, anatre: il cibo dei Nativi Americani), abbiano poi preferito condirla con le spezie a cui erano abituati, coltivate nelle terre del Mar dei Caraibi: il peperoncino di Cayenna, il pepe bianco, lo zenzero. E che i nuovi arrivati francesi, i cajun, abbiano poi completato il tutto con la salsiccia affumicata, ingrediente da loro consumatissimo e che rende il nuovo piatto, la jambalaya, qualcosa di ormai completamente diverso dalla paella “d’emergenza” delle origini.
Questa ricetta quasi mitica, nonostante sia stata creata da tutti i popoli che convivevano in quella zona, non ha mai messo d’accordo nessuno di loro: i francesi non hanno mai amato il pomodoro, che hanno quindi usato con meno entusiasmo nella loro versione (chiamata infatti “brown jambalaya” ), abbondando invece con la cipolla. Viceversa i creoli.
Credo, senza poter essere smentito, che ogni famiglia avesse la sua ricetta, a volte anche profondamente diversa. Non che sia così importante: il fascino estremo del Sud degli Stati Uniti è proprio quella sfumatura che rende impossibile definire le origini o i contorni delle usanze, delle consuetudini, delle tradizioni; quell’inesorabile fusione, involontaria, di leggenda e di storia; quei riti nuovi perché, appunto, nati dalla commistione di tante radici diverse ma derivati sempre dalla sofferenza e dall’inquietudine, dal silenzioso angosciante grido di dolore degli schiavi neri al disorientamento dei coloni franco-canadesi sballottati a migliaia di chilometri da casa e costretti a ricreare una propria identità.
Perfino l’etimologia di “jambalaya” è discussa e può avere molte interpretazioni: molto probabilmente deriva dal termine provenzale “jambalaia” , che significava “guazzabuglio” . O sempre dal francese: “Jean, balayez!” ( “Jean, spazza per terra!” ), disse il cuoco di un ristorante di New Orleans al suo sguattero.
Io però preferisco la versione più suggestiva: i pellerossa Alakapa, stanziati in quella zona, usavano dire, prima dei pasti “Sham, pal ha! Ya!” ; pressappoco: “sii sazio, non digiuno! Mangia!” . Ossia: “Buon appetito!” .
JAMBALAYA
(per quattro persone)
Come avrete notato, non esiste una ricetta codificata della jambalaya. E, soprattutto, non tutti gli ingredienti sono facilmente reperibili in Italia, se non nelle grandi città. Questa è dunque la mia versione, abbastanza fedele a quella tradizionale, con alcuni accorgimenti.
Il tentativo da parte dei discendenti degli Europei di riprodurre le ricette della madrepatria non si esaurisce certamente qui: il gumbo, probabilmente il secondo piatto più famoso della cucina creola-cajun, è semplicemente una bouillabaisse (la zuppa di pesce marsigliese) dell’America del Nord. Ma questa è un’altra storia.
INGREDIENTI:
200 gr di riso (il migliore sarebbe il “chicco lungo” della Uncle Ben’s, riso americano. Il basmati è un discreto compromesso)
120 gr di petto di pollo tagliato a strisce sottili
15 gamberi freschi
80 gr di salsiccia affumicata tagliata a cubetti (difficile da trovare; la andouilette francese, seppur diversa, va bene. Un ottimo compromesso è il chorizo, reperibile al LIDL)
una cipolla bianca grande tritata
un peperone verde tritato
una costa di sedano tritata
8-10 pomodorini maturi, sbucciati e privati dei semi
un cucchiaino di concentrato di pomodoro
due spicchi d’aglio
due foglie di alloro
erbe e spezie; paprika dolce, peperoncino in polvere, aglio in polvere, peperoncino, pepe bianco, timo, origano
brodo di pollo
olio e sale
Preparare prima il brodo di pollo (facendo bollire un pollo o una gallina insieme alle verdure per due o tre ore e poi filtrandolo) e tenerlo da parte. Riscaldarlo a fuoco basso al momento della preparazione del piatto.
In un pestello unire tutte le erbe e le spezie con questo rapporto: due cucchiaini di paprika, di aglio in polvere e di sale grosso ogni cucchiaino di peperoncino, pepe bianco, timo e origano. Pestare bene col mortaio fino a ottenere una polvere finissima, che si può poi tenere da parte e usare come condimento anche per altri piatti.
In una pentola grande scaldare l’olio e soffriggere l’aglio a spicchi, che verrà tolto dopo un minuto, il peperone, la cipolla ed il sedano tritati. Questo mix di verdure viene chiamato “la santissima Trinità” della cucina cajun, in quanto è usato per pressoché tutte le ricette. Una volta brunite le verdure aggiungere i pomodorini tagliati in quarti, l’alloro e lasciar andare, a fiamma alta, per un paio di minuti.
Quindi gettare il riso, tenendo la fiamma alta, mescolandolo sempre affinché si impregni di soffritto. Poi abbassare la fiamma al minimo ed irrorare col brodo caldo. La cottura del riso sarà per assorbimento del brodo, quindi non mescolare spesso e fare in modo che non ci sia né troppo brodo, né troppo poco, aggiungendone all’occorrenza. Intanto può essere tolto anche l’alloro.
Dopo un paio di minuti di cottura aggiungere il pollo, il chorizo, il concentrato di pomodoro (consiglio un cucchiaino, ma si può diminuire se non si vuole il risultato finale troppo rosso) ed il mix di spezie, che è fondamentale.
Assaggiare ogni tanto il riso, quando sarà cotto (se avrà assorbito tutto il brodo, altrimenti può anche stare sul fuoco un paio di minuti in più) dare una mescolata ed aggiustare di sale e di spezie. I gamberi vanno aggiunti un paio di minuti prima di spegnere la fiamma, sgusciati, puliti ed interi.
Il risultato dovrà essere asciutto e ben amalgamato, più speziato che salato, abbastanza piccante (ma come sempre prevale il gusto personale, soprattutto riguardo quest’ultimo punto). Servire non bollente.
Photo Credit:
http://www.gmnetwork.org/wp-content/uploads/2014/09/photo_NewOrleans.jpg
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