Ai cari amici Alessandra e Luca, con cui spero di assaggiare ancora tutti questi alimenti
A molti lettori potrà sicuramente sembrare strano che io abbia deciso di ambientare la seconda puntata della mini-rubrica sulla storia del “gusto acquisito” in Italia, essendo essi abituati a leggere di piatti esotici e poco noti, di storie di invasioni di paesi lontani, di ricette con ingredienti incredibili. Questo articolo non vuole certo essere l’ennesimo elenco di curiosità meno note della nostra cucina, ma proporre una riflessione: quanti stranieri assaggerebbero senza battere ciglio la pajata? Quanti nord-europei si farebbero una scorpacciata di nduja o quanti coreani sarebbero disposti a percorrere kilometri in auto per raggiungere l’ultimo produttore di casu marzu?
La nozione di gusto acquisito, già affrontata qui con esempi della tradizione scandinava, è presente in tutte le culture. Probabilmente anche ognuno di noi ne ha parlato o ne ha riflettuto senza conoscerne l’esistenza. Non riguarda tanto i cibi strani in sé, bensì quegli alimenti in cui sia il concetto che il gusto non sono immediatamente apprezzabili, a meno di non essere da sempre abituati a mangiarli o a vederli mangiare con regolarità.
I gusti acquisiti nel mondo sono tantissimi, ed ognuno di essi è ritenuto ripugnante dalla maggior parte dell’umanità che non li considera parte della loro dieta e, soprattutto, della loro cultura. Perché ad esempio il gorgonzola deve avere maggiore dignità del balut, il famoso uovo col feto di pulcino già formato al suo interno, di cui vanno ghiotti nelle isole Filippine? Tenendo anche conto che gli abitanti di questo arcipelago sono quasi il doppio degli italiani.
Ogni persona è abituata a considerare sé stessa il centro del mondo: se filosoficamente parlando il concetto ha senso, gastronomicamente ne ha molto meno; escludendo chi ha viaggiato molto o, per vari motivi, ha la mentalità apertissima, tutto quello che mangiamo noi non è migliore o peggiore di quello che mangiano gli altri. È soltanto quello che ci è stato tramandato come “buono” (o “giusto” ). Questo piccolo viaggio, da nord a sud della Penisola, vuole approfondire gli alimenti italiani considerati “gusti acquisiti” , alcuni noti ed altri meno, che molti di voi non mangerebbero, altri adorano ed altri ancora non conoscono.
Di certo l’alimento più noto di questa carrellata è il gorgonzola: nato per caso, nel tardo Medioevo, nell’omonima cittadina nei pressi di Milano (per caso s’intende: una forma di stracchino dimenticata/avariata e poi trovata buonissima), è ora diffuso in tutta Italia, apprezzato per il sapore pungente o ripudiato per l’odore acre. In realtà il concetto di “formaggio erborinato” (ossia, aggredito da muffe) è piuttosto facile da assorbire per un italiano, soprattutto se vive nel settentrione: dallo stilton inglese all’edelpilz bavarese al rochefort francese ogni nazione della Vecchia Europa trova normale consumare latticini puzzolenti, andati a male e dal sapore intensissimo. Diverso sarebbe in Giappone: la globalizzazione sta sconfessando tutto, ma fino a poco tempo fa in quella cultura era inconcepibile l’idea di mangiare del latte che è, in qualche modo, fermentato. Il formaggio, semplicemente, non si sapeva che cosa fosse (il tofu è tutt’altro); date del gorgonzola a un giapponese anziano e, nella migliore delle ipotesi, vomiterà.
Il discorso è già diverso per la pajata: non credo che in nessuna parte del mondo esista una pietanza paragonabile. Di origine prettamente romanesca, si tratta dell’intestino dell’agnello o del vitello da latte (che, quindi, non ha mai ingoiato nessun alimento solido) con ancora il chimo al suo interno, già parzialmente digerito. Ossia pieno di ciò che, qualche centimetro dopo, sarà diventato escremento.
Viene, in genere, servita con rigatoni e abbondante sugo di pomodoro ed è ovviamente buonissima, dal sapore forte e pungente. Per nostra fortuna, dopo 14 anni di veto da parte dell’UE per il pericolo BSE (la “mucca pazza”) la pajata è tornata legale ed è possibile gustarla in molte trattorie storiche romane (un nome tra i tanti: Checchino dal 1887). Vi sembrerà incredibile che qualcuno mangi questa roba, ma a Roma è ritenuta normalissima ed anzi, se avete un amico romano verace chiedetegli la sua opinione sulla pajata: rimarrete probabilmente sconcertati, dato che oltre che adorarla saprà anche cucinarvela.
Il sud offre, come potete immaginare, grandi soddisfazioni. Si inizia col preparato più celebre tra quelli che sto per elencare: la ‘nduja, un salame spalmabile piccantissimo prodotto in Calabria, soprattutto nella zona della provincia di Vibo Valentia. Il nome, difficile da pronunciare, è di etimologia latina (da “inducere” , introdurre) e questo salume è nato per poter sfruttare le parti di scarto dell’animale, venendo via via ingentilito nel corso del tempo. Probabilmente il sapore sarebbe familiare in gran parte dei cinque continenti: carne non meglio definita leggermente affumicata coperta dalle spezie e da un piccante sempre più accentuato ed opprimente. Il problema non credo sia l’assaggio in sé: è il consumo frequente, abituale, disinvolto a renderlo in tutto e per tutto un gusto acquisito. Come, allo stesso modo, sarebbe impossibile senza essere abituati sopportare la piccantezza della cucina coreana (i cui piatti sono accompagnati in modo quasi ubiquitario dal kimchi, cavolo piccante fermentato, oltre a generose dosi di peperoncino) o thailandese/laotiana, davvero eccezionale ma piccante in modo, probabilmente, insopportabile per un occidentale.
Spostandosi verso il mare, in quel lembo di terra in cui c’è sempre il sole e che offre eccellenze come il pomodoro di Pachino, ormai proteso verso l’Africa, si può trovare qualche piccola industria di conservazione del pesce che produce qualcosa di davvero insolito: il lattume, testicolo del tonno tagliato, essiccato e salato con ancora lo sperma all’interno. Scritto così suona spaventoso; in realtà i forestieri che hanno il coraggio di assaggiare il lattume concordano: roseo, morbido, sapido, cremoso (sic), dolciastro, paragonabile al fegato. Si consuma o con un filo d’olio come aperitivo o anche in una robusta spaghettata. Non deve sembrare strano un alimento del genere: il suo equivalente femminile è la bottarga, prodotta anche in Sardegna, che consiste nell’ovario contenente le uova, salato ed essiccato ed è apprezzato e venduto in tutti i principali supermercati. Inoltre bisogna considerare che il tonno è una sorta di maiale del mare: ogni parte è commestibile e nulla viene sprecato, specie in una tradizione marinara e umile come quella dell’estremo sud-est della provincia di Siracusa. Qui il concetto di gusto acquisito è chiarissimo: solo chi ha sempre visto gli altri farlo può ritenere normale apprezzare “testicoli di tonno con lo sperma dentro” .
Per chiudere (da formaggio andato a male a formaggio andato a malissimo) sarebbe impossibile e quasi delittuoso rinunciare, come una sorta di dessert, al casu marzu o casu fràzigu, per gli amici “formaggio coi vermi” . In realtà i vermi non c’entrano: il tutto si deve a una mosca (Phiophila casei) che ama depositare le uova su una forma di pecorino o caprino sotto stagionatura. Le larve si nutriranno del formaggio bucherellandone l’interno e rendendolo cremoso e saporitissimo, quasi piccante.
Il casu fràzigu è attualmente illegale, essendo in contrasto con le norme igienico-sanitarie dell’UE. Effettivamente le larve di quella mosca sono temutissime dai casari di tutto il mondo, in quanto distruttrici di intere partite di formaggio; tuttavia non è detta l’ultima parola, date le lotte della Regione Sardegna per tentare di salvaguardare il prodotto.
Non esiste niente di paragonabile al “formaggio marcio” se non gli altri formaggi marci: in molte regioni d’Italia si producono alimenti similari, con lo stesso processo: il furmai nis in Emilia, il marcetto in Abruzzo, il casu puntu in Salento. Perfino in Germania esiste un concetto simile: il Milbenkäse, in cui però le larve sono sostituite da una specie di acari, i Tyroglyphi L. casei .
Perché mangiare questi alimenti così singolari? Chiaramente non esiste una ragione specifica e credo, in tutta sincerità, che nessun dietologo li consiglierebbe. Penso però che sia giusto conoscerli per capire e far proprio un principio, che ho già cercato di accennare all’inizio: non esistono cibi “strani” o “assurdi” . Esiste un modo di percepire il cibo che deriva dalla propria cultura, dal proprio percorso, dalle proprie abitudini e dalle proprie radici, che porta a saper apprezzare certe cose meglio di altri, ma anche ad avere pregiudizi e, quindi, a precludersi sapori incredibili che hanno il solo difetto di non essere “tradizionali” .
PASTA COL NOVELLAME MARINATO
Il novellame, che non ho volutamente inserito nell’articolo, è una sorta di “’nduja di pesce” , fatta coi bianchetti, pesci piccolissimi tipici dei mari calabresi e siciliani. Si tratta anch’esso di un gusto acquisito, piccantissimo e saporito.
La ricetta è di Carlo Cracco.
(per quattro persone)
320 gr di paccheti
100 gr di novellame in vasetto (si trova nei banchi di prodotti tipici)
5 pomodori interi
5 zollette di zucchero di canna
mezzo cucchiaino di semi di finocchio
sale grosso
sale fino
olio, aglio
timo, basilico
Sbucciare i pomodori, tuffandoli in acqua bollente per trenta secondi dopo aver inciso la buccia. Lasciandoli interi, praticare una croce su ogni pomodoro appoggiando sopra una zolletta di zucchero, un filo d’olio, del sale grosso e gli aromi. Passarli poi in forno a 70° per due ore.
Cuocere la pasta in acqua salata, scolarla al dente e farla raffreddare con dell’acqua corrente fredda.
Versare i pomodori in una terrina, tritandoli in maniera regolare, aggiungendo i semi di finocchio e mescolando bene. Poi aggiungere il novellame, mescolando in modo delicato (dato che potrebbe sfaldarsi). Versate sulla pasta, amalgamate un’ultima volta e, nel caso, aggiustate di sale.
Photo Credit:
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http://www.ninocastiglione.it/photo-prodotti/03-spec-03-lattume.jpg
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