La pizza, alimento che non ha bisogno di presentazioni, è nata in Italia, in quell’area circoscritta tra Napoli e Gaeta (città ora in Lazio, ma di cultura e lingua napoletana). Questo è un fatto. Ma è altrettanto vero che in tutto il bacino del Mediterraneo e, genericamente, in tutti i “paesi caldi” d’Europa si è sentita l’esigenza, prima o dopo, nel corso dei secoli di impastare acqua e farina, lievitarla, infornarla e creare una sorta di pagnotta da condire a piacimento.
Il più antico tra essi è sicuramente la pita, nota già in epoca babilonese 4500 anni fa, da considerarsi antenato oltre che del pane, di quasi tutte le preparazioni a base di pasta lievitata.
Non è un caso che l’etimologia di pita sia poi la stessa che ha generato i vocaboli “piada” , “pizza” (con cui in origine si indicavano le torte dolci) e via dicendo; del resto la diffusione della pita fu costante nel corso dei millenni, diventando cibo tradizionale in tutto il mondo arabo, persiano ed ebraico, per venire poi esportato con le varie invasioni anche nei Balcani, di cui diventò un accompagnamento fondamentale ed in cui si evolse in qualcosa di diverso: pasta sfoglia non lievitata a strati, sottilissima, intervallata da strati di condimento e cotta in forno, croccante fuori e soffice all’interno, che prende il nome di gibanica (da pronunciarsi “gibànitsa”).
La pita, in un certo senso dunque antenata della pizza, ha ottenuto la meritata popolarità soltanto di recente, grazie ai take-away turchi, greci o arabi diffusi nelle grandi città europee, che la usano per condire le pietanze a base di carne speziata o verdure. Pochi sanno che è tutto un equivoco: la pita era nata originariamente per raccogliere le salse, di cui è ricca la cucina levantina, senza bisogno di essere tagliata in due parti come un panino; l’uso ad imitazione di quest’ultimo è, perlopiù, improprio, anche se ormai predominante.
Dicevo, alla pita dobbiamo tutto, in termini di concetto di “pane lievitato a forma di disco” . Quel che preme evidenziare qui sono soprattutto le evoluzioni e le reinterpretazioni, non sempre certe, non sempre chiare, che ogni popolo ed ogni cultura ha sviluppato. La prima tappa di questo viaggio è un baracchino di döner kebab; sì, proprio quei negozietti ormai ad ogni angolo delle strade, non sempre puliti, non sempre rassicuranti, in cui si vende una versione piuttosto grossolana del kebab ed altre specialità turche più o meno autentiche; chi osserva con attenzione il menù noterà oltre alla margherita (non è un caso che i turchi sappiano farla) anche una sorta di pizza, asciutta e sottile, chiamata lahmacun (da prounciarsi “lamagiun”); non è una reinterpretazione della nostra pizza o un errore o un tentativo di abbindolare il cliente italiano sprovveduto, bensì è la cosiddetta “pizza alla turca” , un piatto a tutti gli effetti, originato dalla pita ed evolutosi in modo indipendente dal corrispondente italiano. Il condimento è ovviamente adattato alla loro cultura: meno pomodoro, più cipolla, macinato d’agnello, peperoni e spezie. Non siate timorosi e, almeno una volta, scegliete il lahmacun al posto del più scontato e meno salutare kebab.
Non troppo lontano dalla Turchia, in Georgia (paese che, come lingua e tradizioni, è completamente diverso), è stato fatto un sondaggio qualche anno fa, con la seguente domanda: “preferite il khachapuri o la pizza napoletana?” . Il risultato è stato spietato: solo il 12% degli intervistati preferisce il nostro piatto nazionale; il resto di quella popolazione va matta per questa pasta di pane, a forma ovale e piuttosto spessa e soffice, condita con formaggio fuso ed un uovo al centro. I gusti non sono sindacabili, dicevano i latini e probabilmente un po’ di nazionalismo, in questa votazione, c’è stato; ma sarebbe certamente interessante far assaggiare il khachapuri (da pronunciarsi “hahgiapuri”) anche in Italia per poi riproporre la medesima domanda. Il risultato? Non così scontato.
In Medio Oriente le variazioni sul tema sono infinite: si potrebbe citare il lafa, ad esempio, simile al lahmacun ma più spesso, tipico dell’Iraq, da accompagnare a classicissimi come hummus, falafel o shawarma. E via dicendo.
Trovo tuttavia che sia più interessante concentrarsi sulle peculiarità e le diversità del nostro paese, in cui, come in nessun’altra parte del mondo, si fondono tradizioni di decine di invasori diversi con materie prime eccezionali ed un certo spirito di iniziativa, forse anche un po’ visionario. Certamente non viviamo di sola pita: anche gli antichi romani avevano le loro focacce lievitate, chiamate offa e non lievitate, chiamate placenta; ma, altrettanto certamente, come accennato all’inizio l’etimologia non lascia dubbi: in Calabria si può gustare la pitta, un pane tondo, con un buco al centro, con cui accompagnare varie pietanze tra cui il leggendario morzeddhu (a base di trippa ed altre interiora, piccantissimo). In Romagna invece è celeberrima la piada, cibo medievale di origine greco-bizantina, mangiata da sola come surrogato del pane o come contenitore per vari ingredienti (l’abbinamento classico è scquacquerone, un formaggio morbido, rucola e prosciutto cotto).
Più interessante poiché meno nota la situazione in Liguria: nella zona di Imperia che volge verso il confine francese non si viene presi per pazzi (anzi) se si entrasse in un panificio ordinando la piscialandrea: un tipo di focaccia molto spessa, quasi come una torta, condita con pomodori pelati, filetti di acciughe, olive taggiasche ed aglio. Non è stato ancora accertato se l’origine sia, appunto, sanremese oppure francese: a Nizza il nome è pissaladière, e differisce per la presenza delle cipolle a scapito del pomodoro, che è assente.
Curiosamente mille chilometri più a sud, a Palermo, la città simbolo del cibo di strada dell’Europa tutta, si può acquistare un prodotto molto simile come concetto alla piscialandrea ligure: lo sfincione. Questo ibrido tra la pizza (per via del condimento: pomodoro, acciughe, origano, caciocavallo sbriciolato) e la focaccia (per via della pasta) viene prodotto in pochissimi forni durante la notte e poi distribuito dai tipici carrettini ambulanti, a volte ancora a pedali ma in genere a tre ruote. Guai a chiamarla “pizza palermitana” : si rischierebbe di scatenare una discussione di proporzioni inimmaginabili; del resto Palermo è una città le cui tradizioni gastronomiche meriterebbero un articolo a parte. Chi avrà la pazienza di seguirmi non resterà, in questo senso, deluso.
Ed infine la pizza: il prodotto più conosciuto, più diffuso, più copiato tra tutti quelli qui trattati. L’unico ad avere un disciplinare che ne regola impasto, ingredienti, tecniche di cottura e l’unico ad identificare, all’estero, una nazione intera e tutti i suoi abitanti. In realtà, pur essendoci tracce di questo alimento dal 1000 D.C. , è da circa duecento anni che la pizza è codificata come la versione attuale. La leggenda narra che, nel 1889, si dovesse cucinare qualcosa di speciale per celebrare la visita della regina Margherita di Savoia in città, moglie di re Umberto I. Il cuoco Raffaele Esposito, a cui toccò l’onere, condì la pizza coi colori della bandiera italiana: mozzarella, pomodoro e basilico; ed, ovviamente, la regina apprezzò moltissimo.
Se sicuramente il nome “Margherita” può derivare da questa occasione, era almeno da cinquant’anni che si usavano questi ingredienti; non è un caso che a Napoli le vere pizze tradizionali siano soltanto due, Margherita e marinara. E che, prima del boom economico, gran parte del paese non conoscesse se non per sentito dire questo piatto straordinario, dato che esistevano davvero “diverse Italie” con diverse tradizioni, quasi impermeabili tra di loro.
Anche questo, a ben vedere, è un argomento che sarebbe interessante trattare. Tutte le cucine del mondo sono influenzate da migrazioni e da scambi culturali, a volte così improbabili da non riuscire neanche ad immaginarli: la pita arrivò in Europa prima di Cristo e sconvolse abitudini alimentari radicate e fissate nel tempo, non a caso proveniente dalla zona in cui, prima di tutte le altre, nacque l’agricoltura. Anche la cucina italiana, dopo secoli di vitalità dal punto di vista delle influenze reciproche, si era negli ultimi secoli chiusa e contorta su sé stessa, riuscendo soltanto a risorgere nei decenni che stiamo vivendo. Ma questa è, ovviamente, un’altra storia.
LAHMACUN
Ingredienti:
250 gr di farina 000
160 gr di acqua tiepida
9 gr di lievito di birra fresco
un cucchiaino di sale
un cucchiaino di zucchero
125 gr di macinato d’agnello
una cipolla rossa piccola
due spicchi d’aglio
un peperone verde tipo friggitello
tre cucchiai di concentrato di pomodoro
un pomodoro
una manciata di prezzemolo
mezzo cucchiaino di cumino in polvere
mezzo limone
pepe nero, sale, olio
Sciogliere lievito e zucchero nell’acqua, mescolare poi farina e sale e formare una fontana. Versare l’acqua al centro ed impastare. Porre poi l’impasto in un contenitore oleato, coprirlo e lasciarlo riposare e lievitare. Quando l’impasto sarà raddoppiato, sgonfiatelo e dividetelo in cinque palline di uguale peso e spessore, da stendere poi una alla volta col mattarello fino ad ottenere delle pizze molto sottili, di circa 20 cm di diametro. Appoggiare poi su una teglia infarinata e condire col pomodoro, la cipolla, il prezzemolo, il peperone e l’aglio tritati finemente, insieme alla carne, al concentrato (sparso uniformemente) e alle spezie, insieme al sale e ad un filo d’olio. Questo condimento può anche essere preparato prima e lasciato poi in frigo a riposare un paio d’ore.
Durante le preparazioni preriscaldare il forno a 250° in modalità grill: al momento di infornare, cambiare da grill a ventilato e cuocere per circa sei minuti (o fino a quando i bordi saranno ben dorati). Decorare infine con qualche pomodoro a crudo, degli anelli di cipolla e del succo di limone.
(ricetta di trattoriadamartina)
Photo Credit:
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http://img.misya.info/Misya2/2014/03/pane-pita1.jpg
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