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Un tour gastronomico nella Sicilia orientale

Ai miei genitori.

Come diceva Gesualdo Bufalino, una delle più grandi penne del secolo scorso nonché professore liceale di lettere, ‘vi sono cento Sicilie, non smetterò di contarle’ . Bufalino, finissima penna ed arguto osservatore dei comportamenti e delle vicende umane, aveva ragione: al di là dell’ambiguità perenne del carattere di un popolo complesso come quello siciliano, esistono tante Sicilie anche dal punto di vista gastronomico e culturale. A pensarci bene questo concetto appare quasi un’ovvietà: come è possibile che la regione più grande d’Italia possa avere una cucina uniforme in tutto il suo territorio, con gli stessi prodotti, le stesse ricette e le stesse usanze?
Proprio per questo è bene esplorare la zona forse meno conosciuta e considerata per via della distanza dal capoluogo, ma che offre, proprio per questo, una varietà di prodotti incredibile e tante preparazioni apprezzatissime sul territorio ma quasi sconosciute nel resto d’Italia e, forse, anche nel resto dell’isola.
Il nostro giro non può che partire da Catania, capitale di questa parte di mondo, col suo sole perenne, gli edifici di pietra nera anneriti dalla cenere dell’Etna e un dedalo di vie che nasconde una delle più fiorenti culture di cibo di strada d’Europa.

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Si parte da piazza Duomo, in cui di fronte all’elegantissima chiesa dai colori scuri e alla statua dell’elefantino, il simbolo della città, si trova una delle pasticcerie a ragione più rinomate della città: I dolci di nonna Vincenza. I puristi potrebbero storcere il naso perché questo marchio è diventato un franchising presente in numerose città italiane, ma fidatevi: la colazione sarà memorabile e, considerando il contesto, a prezzi irrisori. Se il cannolo, dolce che ha il suo apice nella Sicilia occidentale nella zona interna tra Palermo e Trapani, è per forza di cose rivisitato col suo rivestimento interno di cioccolato e farciture di vari tipi (da provare assolutamente quello all’arancia), la cassata è eccezionale per equilibrio e delicatezza. Qui è chiamata, per la forma, la ‘minna’ di Sant’Agata (letteralmente: la ‘tettina’). Se poi siete fortunati potrete anche ordinare, appena fatto, il cannolo al forno: nonna Vincenza pare fosse originaria di Agira, in provincia di Enna, zona in cui si preferisce infornare la pasta anziché friggerla; il prodotto non ha nulla da invidiare, come sapore e qualità, alla preparazione classica. Per restare leggeri si può accompagnare il tutto con una granita, magari al gusto di gelso (una sorta di mora, più allungata), che qui è quasi simile alla consistenza del sorbetto.

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A pochi passi si entra in un mondo completamente diverso, quasi opposto: il mercato del pesce più grande d’Europa, in cui la confusione, i profumi e i colori riportano molto più facilmente a suggestioni da bazar di Istanbul rispetto che alle ordinate ed asettiche bancarelle del mondo occidentale. La pescheria, coi pavimenti perennemente bagnati ed in cui si accede passando sotto un arco cinquecentesco, si trova in un luogo in cui un tempo, prima di un’eruzione dell’Etna che ha ricoperto tutto di lava, c’era il mare: la materia prima è freschissima ed è uno dei pochi luoghi rimasti in cui non è rischioso assaggiare i frutti di mare crudi, aperti sul posto.

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Tuttavia tiriamo dritto, senza riuscire a scegliere tra i vari ristoranti che propongono pesce crudo di ottima qualità o gli imperdibili spaghetti coi ricci per immergerci nel cibo di strada più autentico, quello di rosticceria, alla portata di tutti e nato con gli avanzi del giorno prima. A Catania l’ ‘arancino’ è maschio, grazie all’ambiguità della lingua siciliana che, per alcuni termini, accetta sia il maschile che il femminile. Da qui l’eterna lotta con Palermo (in cui non si transige dal chiamarle ‘arancine’), sia per il nome che per la forma, che a Catania è perlopiù conica. In realtà l’arancino, o arancina, pare sia nato a Messina, città che tuttora ne rivendica le origini e si vanta di offrirne la qualità migliore. Personalmente apprezzo questa teoria, che mette in risalto una città da sempre poco considerata.
Attenzione: per evitare che si sfaldi, l’arancino va mangiato con la punta verso il basso e non, come capita a molti turisti, nel modo opposto. A Catania esiste da sempre una lotta tra due bar/pasticceria adiacenti tra loro, situati in via Etnea (il salotto elegante della città): Savia e Spinella, che si contendono la fama di migliori rivenditori di arancini della città. Io tuttavia consiglio, vicino appunto alla pescheria, quello dell’Etoile d’or: il locale, aperto ogni giorno 24 ore su 24 (immaginate la clientela che trovereste a notte fonda), offre oltre all’arancino al ragù più saporito e compatto che io abbia assaggiato, coi pezzi di carne grossi che caratterizzano la ricetta, anche la cipollina: un fagottino di pasta sfoglia fritto, ripieno di cipolla, pomodoro, prosciutto cotto e formaggio. Si tratta forse dello snack per eccellenza di Catania, pesante come un pranzo intero ma altrettanto appagante.

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Vagando durante il pomeriggio per il centro della città le attrazioni non mancano: dalle numerose rovine di epoca romana nel sottosuolo ai monasteri (imperdibile quello dei Benedettini ed il suo gemello, il monastero delle Benedettine, che la leggenda crede collegato al primo da un tunnel sotterraneo dal sapore peccaminoso) ai palazzi un tempo sfarzosissimi ed ora in decadenza. Per la cena sono possibili due opzioni: se è vero che la cucina degli ultimi anni vuole, anzi pretende, la riscoperta dei prodotti a chilometro zero, la predilezione per i piccoli produttori, per l’artigianato e le usanze del territorio, la Buatta è il locale giusto: sorge nel mezzo di via dei Crociferi, una delle strade più suggestive della città in quanto vi si trovano, in pochi metri, quattro chiese barocche in uno scenario da cartolina. Gestito da giovani, con pochi coperti, propone una vasta selezione di birre artigianali siciliane, altro nuovo trend di questo decennio, e le materie prime più rinomate e sfiziose del territorio, da gustare sia in purezza (imperdibile il tagliere, di cui parlerò tra un attimo) sia elaborate in piatti comunque leggeri e sfiziosi serviti in barattoli, le ‘buatte’ in siciliano. Dicevamo del tagliere, che spazia dalla mortadella d’asina al salame al pistacchio di maiale nero dei monti Nebrodi, zona del messinese famosa per l’allevamento di questo animale dal sapore intenso, al caciocavallo ragusano (personalmente: il formaggio migliore che abbia mai assaggiato); qui la Sicilia è al top, una terra circondata dal mare che riesce ad offrire anche prodotti di terra di qualità assoluta. Poi ci si può sbizzarrire nello scegliere il couscous alla menta e la caponata (celeberrima preparazione siciliana a base di ortaggi in agrodolce) o un cunzatizzu, la rielaborazione del classico ‘pane cunzatu’ (condito) con combinazioni fantasiose basate sempre sulle ottime materie prime di partenza. Bravi: questa idea potrebbe benissimo lanciare una moda, magari meno effimera di tante altre che, scommetto, tra dieci anni saranno quasi dimenticate; l’all you can eat cino-giapponese, ad esempio.

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Dicevamo, due opzioni: la seconda sarebbe bighellonare per via del Plebiscito, in cui in un ambiente a dir poco popolare si possono trovare, senza soluzione di continuità, tante rosticcerie ambulanti che servono una delle specialità meno note di Catania: la carne di cavallo. Qui è possibile scegliere il taglio di carne direttamente dal banco e farlo grigliare al momento: non a caso questo modo di consumare viene detto ‘arrusti e mangia’ .
Più che la bistecca in sé incuriosiscono gli involtini, o braciole (fettine di carne arrotolate e ripiene di aglio, prezzemolo e pecorino) e le polpette, realizzate col medesimo impasto e ricoperte di pane grattugiato. Non è neanche così chiaro quale sia il locale migliore: alcuni dicono Achille, altri Za’ Carmela (zia Carmela). La soluzione è sempre la stessa: provateli tutti, dato che i prezzi sono irrisori, e valutate. Oltre al cavallo in tutte le sue forme è impossibile non assaggiare la cipollata, una sorta di stigghiola palermitana più nobile: carne grassa di maiale, coppa o capocollo (come dicono qui) che avvolge un cipollotto, poi grigliata e servita con una spruzzata di aceto. Se esistessero cibi che creano dipendenza, probabilmente questo salirebbe di diritto al primo posto.

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L’atmosfera è assolutamente incredibile: si cena all’aperto, con tavolini di plastica sui marciapiedi, avvolti da un traffico allucinante, dal caldo e dall’atmosfera di assoluta precarietà di queste vie. La qualità del cibo è assoluta.

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A sud di questa città in cui si mescolano un’estate di sette mesi, caos, vestigia del tempo che fu ed una certa fierezza ed eleganza nascosta esiste una Sicilia più timida, nascosta, meno celebrata ma forse ancora più affascinante: quel lembo di terra che si protende con prepotenza a sud, superando in latitudine la Tunisia ed offrendo un clima ed un paesaggio che difficilmente dimenticherò più. Senza la pretesa di arrivare fino all’estremità, in spiagge che se fossero ai Caraibi verrebbero definite ‘caraibiche’

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è impossibile non fermarsi a Siracusa. Questa città, probabilmente la seconda più bella della Sicilia, non vive soltanto dei tempi passati in cui era la più importante colonia greca: l’isola di Ortigia offre ancora suggestioni ricchissime, sia artistiche che gastronomiche. Vagando per i suoi vicoli, col sole perenne allietato però dalla brezza costante, è facile imbattersi nel mercato, coloratissimo e profumato: tra le tante rivendite si nota un piccolo negozio sempre affollato, con dei tavolini all’esterno. È il caseificio Borderi; che, lungi da essere una semplice rivendita di formaggi, propone anche ristorazione; la sua fama lo ha preceduto, ma la mia visita qui assurge senza dubbio a più sconvolgente e memorabile esperienza gastronomica della mia esistenza. Il consiglio è quello di sedersi, ordinare un tagliere proporzionato al numero dei commensali e lasciare fare ad Antonio: per quindici euro a testa totali gusterete un tagliere di salumi, formaggi e verdure che non riuscirete a finire, una bottiglia di vino biologico, pane a volontà, un cannolo e due bicchieri di vino da dessert. Il pregio non è certo la quantità, ma che è tutto eccezionale. Con lo stesso spirito del chilometro zero, delle materie prime di qualità e di una produzione attenta, non si riesce a decidere se preferire la porchetta con l’origano (fatta da loro), la stracciatella di bufala con cioccolato bianco di Modica (piango), la mozzarella affumicata, la tricotta (ricotta poi passata in forno) o i caciocavalli e le tume rivestiti di pistacchio. Mangiare qui è come sentirsi i prescelti di una specie di Dio goloso che vi ha dato l’opportunità di decidere: paradiso terrestre (bah) o paradiso gastronomico con vista azzurrissima di mare. Non sto esagerando, anzi probabilmente sto sminuendo. Andateci.

Visitare Siracusa significa percorrere, in piccolo, la storia della Sicilia: da questo pranzo commovente a tremila anni di storia, ammirando qualcosa che era grande ed importante e che ora non lo è più ma pensa, in modo quasi disperato, di esserlo ancora. Una cucina di mare, che tutti conoscono e di cui infatti non ho parlato ed una cucina di terra, meno nota ma che non può non essere considerata perfino in questi luoghi in cui l’aria che si respira è ancora salmastra. Spingetevi fino all’estremità dell’isola di Ortigia, passate davanti al Duomo di pietra bianca, parlate del pranzo che avete appena consumato: vi sentirete parte di qualcosa che chi non ha mai provato non potrà capire.duomo-siracusa-1

È impossibile proporre una ricetta, dato che si tratta di preparazioni irriproducibili a casa (l’arancino, che sospetto sia così buono per via dell’olio da frittura che non viene cambiato dai tempi di Ferruccio Valcareggi) o di semplici materie prime di qualità, tagliate e servite in un piatto.
Mi congedo con le frasi dello scrittore che ci ha introdotti in questo viaggio, Gesualdo Bufalino, che non era solo un professore di lettere vincitore di numerosi premi: era il professore di lettere di mia madre all’istituto magistrale di Vittoria, che le ha trasmesso l’amore per la cultura senza secondi fini. E lei poi a me, al posto delle fiabe, quando ero piccolo.

Ogni siciliano è, di fatti, una irripetibile ambiguità psicologica e morale. Così come l’isola tutta è una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce, e fa sembrare incredibile, inaccettabile la morte. Altrove la morte può forse giustificarsi come l’esito naturale d’ogni processo biologico; qui appare come uno scandalo, un’invidia degli dei.

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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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