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Fast food, parte 1: storia del ketchup

Il ketchup piace a tutti, ed è diventato il simbolo del concetto di fast food nonché la salsa più apprezzata del mondo. Chiunque l’ha mangiato almeno una volta ed, anzi, a volte se ne fa un uso a dir poco improprio, dal condimento della pasta a quello della pizza e, forse, anche molto peggio.
Si associa il “fast food” agli Stati Uniti, e con ragione. È un modo di mangiare che risolve parecchi problemi (fa risparmiare tempo, fa risparmiare soldi – anche se non sempre – , si trova ovunque) ma ne sta creando altri non trascurabili, dall’obesità a vari disturbi alimentari. Lo scopo di questa piccola rubrica a puntate è quella di illustrare la vera storia dei prodotti simbolo dei vari McDonald’s o Burger King, sia come materie prime che come evoluzione, che gli ha permesso di arrivare agli standard con cui tutti li conosciamo adesso.

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Le origini del ketchup si devono ovviamente all’Asia orientale, patria indiscussa dei gusti agrodolci e delle salse. Impossibile stabilire se in Malesia o in quella zona della Cina in cui sorgeva Canton (sì, la città del “riso alla cantonese” che ora si chiama Guangzhou), ma è certo che nel XVII secolo esistesse una salsa, chiamata kôe-chiap, a base di pesce azzurro salato e marinato, che fu scoperta dagli esploratori inglesi ed introdotta subito nelle loro colonie americane almeno dal 1690.
Il lettore attento avrà subito notato una cosa: non c’era il pomodoro, come era ovvio visto che in Asia l’ingrediente era sconosciuto. Infatti nei 150 anni successivi l’ingrediente primario di questa “nuova” salsa, sia negli Stati Uniti che in Gran Bretagna, era diventato il fungo, senza alcuna traccia di pomodori. Anzi, senza neanche una pallida colorazione rossa: il ketchup assomigliava semmai ad un paté di olive nere. Nel 1742 un libro di cucina londinese annoverava questa salsa già come “tradizionale britannica”, preparata col pesce salato (che con gli anni andrà scomparendo), i funghi e lo scalogno. In altre parole, la colorazione che tutti si aspettavano dal ketchup era una sorta di marroncino, anche e soprattutto da quando il pesce fu sostituito con le noci, amate soprattutto nella versione inglese (in America continuavano ad insistere coi funghi). ketchup

Questo spiega anche il motivo per cui sulle confezioni odierne ci sia scritto, in realtà, “tomato ketchup”: agli inizi era necessario specificare che si trattasse di “ketchup al pomodoro”, visto che… non era la ricetta classica, bensì una bizzarra rivisitazione, una sorta di esperimento. Il pomodoro infatti comparve soltanto ad inizio ‘800 e lo scopriamo grazie al manoscritto di un tal signor Samuel Whitehorne, che si preoccupa anche di darci la ricetta:

“Schiaccia i pomodori con la mano fino a ridurli ad una passata, aggiungi un po’ di sale e bollili per due ore, mescolando per evitare che brucino. Setaccialo durante la cottura e poi aggiungi del macis (una spezia indiana), tre noci moscate (!!!), pepe della Giamaica, chiodo di garofano, cannella, zenzero e pepe. Fai sobbollire mescolando sempre e poi fai raffreddare”.

Una ricetta che, nonostante le troppe spezie, è già assimilabile a quella odierna. Anche se, in altre versioni, le acciughe sarebbero rimaste almeno fino al 1850 e, mano a mano, sarebbe stato introdotto anche l’uso dello zucchero e dell’aceto, prima con fini di conservazione e poi di sapore.
Dopo questa data, finalmente, il “ketchup al pomodoro” si è affermato, facendo dimenticare tutte le altre versioni pregresse. Anzi, non sarebbe sbagliato dire che l’uso del ketchup si diffuse, in America, anche prima dell’uso del pomodoro stesso: molti americani erano restii a cibarsene e, addirittura, ritenevano che crudo fosse addirittura velenoso. Dalla produzione casalinga si passò infatti, man mano, a quella industriale: tra gli altri, Henry John Heinz aprì a Pittsburgh nel 1876 la sua industria di ketchup, destinata a diventare la più importante del mondo in termini di produzione e vendita e che aprì la strada alla versione “definitiva” che conosciamo ancora oggi. Heinz aumentò infatti le dosi di aceto e zucchero, aggiunse la cipolla e perfezionò il mix di spezie. Tuttora la ricetta classica si basa su quella di Heinz, ed è per questo che nessuno assocerebbe più le acciughe, i funghi o le noci al ketchup: semplicemente perché il dominio di una delle tante ricette (che era, evidentemente, più buona) ha spazzato via tutto il resto.

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Se è noto ed indiscutibile che il “tomato ketchup” sia diventato, nel ‘900, il condimento più conosciuto nel mondo la cui versione moderna è nata in America, non tutti concordano con quello che ho scritto all’inizio, ossia che derivasse da una salsa di pesce cantonese o malese. Innanzitutto: cantonese o malese? In entrambe le lingue, non imparentate tra di loro, esiste una parola (rispettivamente kôe-chiap e kicap, da pronunciarsi “ketjap”) che vuole indicare la salsa di pesce. È dunque molto probabile che prima dell’arrivo degli Europei, che hanno sempre amato considerarsi l’unica civiltà degna di nota, ci fossero già scambi commerciali tra questi paesi ed una cultura ha portato la sua “salsa di pesce” all’altra (probabilmente dalla Cina alla Malesia). Non solo: anche in Indonesia il termine “kecap” indica una salsa. Non di pesce, però, ma a base di salsa di soia, zucchero, spezie, melassa ed alloro.
Non finisce qui: alcuni linguisti hanno osservato che nel persiano (lingua indoeuropea, quindi molto più vicina all’inglese che al cinese) esistono due termini, ket e siap. Cosa significano? “salamoia” e “pesce”, ovviamente. Inoltre la storica Karen Hees ha fatto notare come sia sempre esistita in Europa una preparazione chiamata, a seconda, “escaveche” in francese, “escabeche” in portoghese e “scapece” in napoletano (il carpione a Milano, per intenderci), derivata dall’arabo “kabees” , che significa “conservare sotto aceto”. Infatti queste preparazioni sono nate proprio come conservante, salvo poi accorgersi che, migliorandole un minimo, erano anche buonissime. Dunque perché, si domanda Hees, “ketchup” non sia la versione inglese di “escabeche”? Del resto il Portogallo aveva moltissime relazioni commerciali con la Gran Bretagna ed esiste una parola, “caveach” , possibile antenata di “ketchup” che si diffuse a Londra proprio nel XVII secolo…

E gli italiani in tutto questo? Gli italiani c’entrano sempre quando si parla di storia del cibo. Sia perché qualche ingrediente è passato da noi ed è stato raffinato, sia perché qualche cuoco italiano all’estero ha inventato una preparazione ora celeberrima (la granita? L’ha inventata un cuoco siciliano a Parigi nel 1686), sia perché siamo riusciti a tirare fuori il massimo da materie prime considerate disgustose. Stavolta invece no. Gli italiani col ketchup non c’entrano niente. Anche se…

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Anche se in Piemonte esiste, da più di duecento anni, una salsa chiamata “bagnet ross usata per accompagnare il bollito. Che, con molti distingui, ha un sapore ed una preparazione abbastanza simili al ketchup (il pomodoro, lo zucchero, l’aceto…). Si tratta semplicemente di due salse simili, ma evolutesi parallelamente. Durante la triste epoca fascista, però, quando Mussolini impedì l’importazione di qualsiasi prodotto dall’estero e impose il cambiamento di tutti i termini stranieri nell’equivalente italiano (il whisky diventò “spirito d’avena”), il ketchup era già abbastanza famoso. Tanto che, per evitare agli italiani di privarsene, fu inventata una salsa, la “salsa rubra” (salsa rossa, dal latino) che si basava sulla preparazione del bagnetto rosso piemontese. Il “ketchup all’italiana”, in sostanza. Da quel momento dunque, nonostante l’origine diversa, queste due salse sono diventate, per molti, la stessa cosa ed il loro uso è continuato anche nel dopoguerra, quando il ketchup è finalmente ritornato nelle nostre tavole.

SALSA RUBRA

500 gr di pomodori ramati sbucciati e tagliati a tocchetti
50 gr di cipollotti
un cucchiaio di zucchero
un cucchiaino da caffè di tabasco rosso
un goccio d’olio
sale

Fare sudare in un tegame, a fuoco basso, la cipolla con l’olio. Aggiungere poi tutti gli altri ingredienti e far cuocere per 45 minuti, fino a che tutto non si disfi. In seguito frullare fino ad ottenere una crema, filtrarla e poi rimettere sul fuoco per addensarla. Aggiustare di sale.

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Photo Credit:
Citizen Salerno
Amazon
Wikipedia
La Rigattiera Nera
Cavoletto di Bruxelles

 

 

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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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