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Romana sì, romana no: la vera storia dell’amatriciana e della carbonara

Al mio amico Alessandro e alle nostre spaghettate notturne.

 

La cucina romana è una delle più golose dell’Italia tutta, in particolare per quanto riguarda la pasta. Dal cacio e pepe all’amatriciana alla carbonara ai rigatoni con la pajata, chiunque di noi avrà assaggiato questi piatti o a casa o in una delle numerosissime trattorie che affollano la capitale. Magari però molti avranno trascurato un dettaglio: ben pochi di questi piatti sono tradizionali, ben pochi di questi piatti hanno origine romana. Anzi, forse neppure laziale. Come ho detto più volte, non è affatto inusuale che ricette ritenute “tradizionali” o antichissime abbiano in realtà poco più di 50 anni o provengano da migliaia di chilometri di distanza dal luogo in cui si sono affermate, anche se la cosa, ad intervalli più o meno regolari, offende senza motivo gli abitanti di questa o quella città.
Innanzitutto bisogna partire dal nome: “amatriciana” deriva da Amatrice, uno sperduto e suggestivo paesino di montagna in provincia di Rieti.
Il problema è che questa località, fino al 1927, si trovava in Abruzzo: è stato Mussolini, col suo progetto vagheggiante di allargare la regione Lazio per fare ancora più grande la nomea di Roma capitale, ad includere arbitrariamente Amatrice nei confini della regione in cui si trova tuttora. Quindi, in senso stretto, l’amatriciana è un piatto abruzzese. Il fatto che questa annessione abbia completamente rovinato l’economia della zona ci porterebbe troppo lontani dalla nostra storia di oggi: è solo opportuno ricordare che già nei secoli passati i pastori e gli allevatori di Amatrice si recavano spesso a Roma, per vendere gli alimenti (salumi, formaggi) da loro stessi prodotti o per lavorare come osti o camerieri. È così che l’amatriciana, chiamata poi anche “matriciana” per aferesi, iniziò a farsi conoscere nelle locande gestite dagli immigrati amatriciani. E dire che, all’inizio, il piatto nemmeno prevedeva il pomodoro: era una delle tante derivazioni del cosiddetto “sugo finto” , cioè quei condimenti realizzati senza carne (tuttalpiù col lardo) che, tramite numerosi aromi, cercavano di ricordare il sapore della carne. In questo caso si trattava della “gricia” , conosciuta anche ora come “l’amatriciana senza sugo” . Quindi: pasta con guanciale (non pancetta, attenzione) rosolato in padella caldissima e pecorino di montagna. Il nome deriva probabilmente da Grisciano, una frazione di Amatrice o (ipotesi più fantasiosa) da alcuni immigrati in epoca remota dal cantone svizzero dei Grigioni.

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L’aggiunta del pomodoro si è poi imposta parallelamente alla diffusione di questa bacca, originaria dell’America: è circa da duecento anni che “ingentilisce” la pasta alla gricia, rendendola “amatriciana” propriamente detta ed, anche, erroneamente, un classicissimo della cucina romana. Purtroppo nell’epoca dell’omologazione dal supermercato il guanciale viene spesso sostituito dalla pancetta o (addirittura) dal bacon, viste la rarità del guanciale o, semplicemente, l’ignoranza.

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La storia della carbonara è anche più interessante, sia per le numerose versioni e sia perché nel manuale di cucina romana di Ada Boni, assoluto best seller nell’epoca in cui fu pubblicato (1930), questa ricetta non è nemmeno accennata. Non è necessario dilungarsi sulla composizione di questa ricetta: qui la pancetta, dolce o affumicata, è ammessa, insieme a tuorlo d’uovo, pecorino e pepe nero. L’ipotesi meno interessante vuole che fosse praticamente l’unico nutrimento dei carbonai, i produttori di carbone che sugli Appennini tra Lazio e Abruzzo, mentre aspettavano che il legname, bruciando, si trasformasse in carbonella, abbrustolivano le provviste di lardo (poi sostituito dalla pancetta) unendolo alle poche uova che avevano, al pepe e agli spaghetti. Insomma, una versione più ricca del piatto medievale “cacio e ova” .
Molto più suggestiva l’origine anglo-americana: i soldati alleati che nel 1944 risalivano l’Italia dopo gli sbarchi avevano a disposizione quasi soltanto gli ingredienti portati da casa. Il bacon, le uova, la crema di latte, cioè quello che loro usavano per preparare la colazione. Metterli insieme alla prima cosa che si trovava ai tempi nel centro-sud (gli spaghetti) fu automatico. Non sapremo mai se fu un’intuizione dei soldati o meno. C’è un cuoco bolognese, Renato Guaraldi, che qualche anno fa, ormai novantenne, ha raccontato una possibile storia al Corriere della Sera:

«Il generale canadese Eedson Louis Millard Burns si era sistemato all’hotel Vienna, a Riccione, in cui lavoravo io come cuoco. Le sue truppe avevano un bacon fantastico, della crema di latte buonissima, del formaggio e della polvere di rosso d’uovo. Misi tutto insieme e servii a cena quella pasta ai generali e agli ufficiali. All’ultimo momento decisi di mettere del pepe nero che sprigionò un ottimo sapore (…). Furono conquistati da questa pasta».

Impossibile scoprire, al di là della bellissima testimonianza del signor Guaraldi, quale sia la verità. L’etimologia di “carbonara” farebbe propendere per l’origine abruzzese: i carbonai, il pepe che viene tuttora usato per la conservazione dei salumi, il fatto che in Abruzzo “carbonada” voglia dire “pancetta“ . Però il fascino del racconto, il fatto che a Roma la ricetta fosse sconosciuta prima della guerra salvo poi esplodere subito dopo (è citata perfino nei racconti di Alberto Moravia del 1955) e, soprattutto, l’incredibile presenza di questo piatto nel menù di un ristorante di Chicago (!) nel 1952

romanaportano invece a pensare che gli spaghetti alla carbonara siano il piatto fusion più sgangherato e pazzesco della storia della cucina, nato in tempo di guerra, con le uniche cose che si avevano a disposizione e trovato talmente squisito dai soldati da essere subito tramandato una volta tornati a casa. Di sicuro una preparazione nuovissima: ancora alla fine degli anni ’60 molti libri di ricette e molti illustri gastronomi non avevano un’idea precisa della ricetta. Chi metteva il burro, chi il peperoncino, chi non rosolava il bacon. E, altrettanto sicuramente, la “cucina tradizionale” è ben altra cosa.

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C’è anche una terza ipotesi: quella napoletana. Nel 1839 un testo fondamentale, «La cucina teorico-pratica» di Ippolito Cavalcanti (che ha la stessa importanza de «L’origine delle specie» di Darwin per la storia della biologia), cita una ricetta che prevedeva pasta, formaggio e uova sbattute. La cucina di questa zona vuole tuttora, in molte ricette, l’aggiunta a crudo di tuorlo d’uovo sbattuto, pecorino e pepe, dalla trippa allo spezzatino. Mi sento di considerare questa ipotesi tanto plausibile quanto poco suggestiva.
Non che sia importante: nella storia della cucina non c’è niente di certo. Ancora si discute su chi abbia inventato gli spaghetti (se i siciliani o i cinesi o entrambi, separatamente), figuriamoci quanto possa sembrare strano il pensare che le due ricette simbolo della cucina della capitale d’Italia, la nazione in cui si mangia meglio al mondo, siano derivate una da un gruppo di pastori senza più identità territoriale emigrati a Roma per necessità e l’altra, forse, da dei soldati americani a cui hanno servito un piatto dove erano mischiati gli unici alimenti che avevano. Ed aggiungo: per fortuna che non si erano portati dietro il ketchup.

BUCATINI ALL’AMATRICIANA

Il dibattere sulla ricetta “vera“ e “autentica“ dell’amatriciana potrebbe portare a guerre con morti e feriti. Cipolla sì o cipolla no? Olio o grasso del guanciale? Pepe o peperoncino?
Per fortuna ci è venuto incontro il comune di Amatrice, che ha pubblicato sul suo sito una ricetta definitiva. Alzi la mano chi oserà dargli torto.

(per quattro persone)

320 gr di bucatini di ottima qualità
80 gr di guanciale tagliato a listarelle
260 gr di pomodori pelati già scolati
60 gr di pecorino abruzzese grattugiato (è ottimo quello di Farindola)
un cucchiaio di olio extravergine d’oliva
un goccio di vino bianco secco
un pezzetto di peperoncino fresco
nessuna cipolla

La tradizione vuole che il guanciale sia, come peso, un quarto rispetto alla pasta. Ed è una regola ferrea. Porre il guanciale in una pentola con l’olio e il peperoncino intero, rosolando a fuoco vivo. Appena la carne inizia ad appassire, sfumare col vino. Quando esso sarà evaporato (ossia quando non si sentirà più odore di alcol), togliere il guanciale dalla padella, sgocciolarlo bene e tenerlo da parte in un luogo caldo. Mettere nella stessa padella i pomodori tagliati a pezzi e privati dei semi, aggiustandoli di sale e mescolando a fiamma alta per qualche minuto.
Togliere il peperoncino dal guanciale, rimetterlo nella salsa e girare un’ultima volta.
Nel frattempo si sarà lessata la pasta in acqua bollente salata. Dopo averla scolata, la si sarà messa in una terrina aggiungendo poi il pecorino grattugiato. Attendere qualche secondo, poi unire la salsa e mescolare.

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Photo Credit:
Intra Moenia
Il Pasticcio della Cuoca
Le Scienze Blog
Buttalapasta
Salepepe
Giallo Zafferano

 

 

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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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