Ad Alice e al nordest, terra del suo cuore e quindi anche del mio.
Tutti noi sui libri di storia abbiamo studiato, controvoglia o meno, il dominio austriaco in Italia. Non è durato molto (circa 150 anni, con alcune interruzioni) ma ha lasciato tracce durevoli nelle leggi, nelle strutture e nell’argomento che più ci interessa: il cibo.
Per parlare dell’influenza, vera o presunta, della cucina austriaca sulla nostra parto da un luogo preciso, nel centro di una città bellissima e sottovalutata che si chiama Padova, oscurata da Venezia (a ragione) e da Verona (a torto). Qui si trova un locale storico in molti sensi, che rappresenta un’istituzione: il Caffè Pedrocchi. Gli universitari del posto pensano che, consumando lì prima della laurea, essa non verrà mai raggiunta. Si tratta dunque del ritrovo per eccellenza dell’alta borghesia e di chiunque voglia fare bella figura. Non è però il classico bar snob a cui potremmo pensare: il Caffè Pedrocchi è una parte integrante della storia di Padova e, più in generale, di quello che sto per raccontarvi.
Aperto nel 1772 da Francesco Pedrocchi, divenne presto, grazie anche alla diffusione del caffè, un locale frequentato da tutti o, perlomeno, da chi contava. È per questo motivo che è stato presto abbellito fino a diventare un edificio neogotico e neoclassico di un certo valore artistico. Perché è interessante il Caffè Pedrocchi? Perché nel piano superiore, bellissimo, con ogni sala di uno stile diverso dall’etrusco al pompeiano, si riunivano nel 1848 gli studenti che tramavano nell’ombra contro il dominio austriaco ed erano pronti a scatenare una rivoluzione. Purtroppo la rivolta fu subito repressa ed il Pedrocchi cadde in decadenza per qualche decina di anni. Ora il piano superiore del locale ospita un bel museo dedicato al Risorgimento.
Questo evento però fa capire due cose: se in Veneto c’erano gli austriaci, è improbabile pensare che non abbiano lasciato tracce delle loro tradizioni. La seconda cosa, meno ovvia, è che ora al Pedrocchi si va… per il Pedrocchi. Un caffè in tazza, da non mescolare, con latte zucchero e menta. Non dico menzogne se affermo che è il miglior prodotto da bar che abbia mai ingollato e che ho fatto una deviazione di alcuni chilometri apposta per poterlo riassaggiare.
Dicevamo, il Veneto ottocentesco (ma anche la Lombardia ed ovviamente Trieste, che si è sempre considerata non a torto una città austriaca) aveva Vienna come capitale. Chiunque si comporta da dominatore trova normale stuprare le usanze di altri adattandole al proprio uso e consumo. È così che il vino locale, ritenuto troppo forte, veniva “allungato” (in tedesco “spritzen”) con dell’acqua frizzante per mitigarne la potenza. Da “spritzen” a “spritz” , per una parlata ruspante come quella veneta, il passo è brevissimo. Non è un caso che lo spritz originale sia, semplicemente, vino bianco o rosso allungato con acqua, tanto che a Trieste o a Padova, se non si specifica al momento dell’ordinazione, lo spritz viene ancora servito così e proprio così lo vogliono rigorosamente gli anziani, poco inclini per tradizione a seguire le mode giovanili. Sì, ma è nato a Padova o a Trieste? Come sempre nella storia della cucina & affini, non se ne ha la certezza. Innanzitutto bisogna notare che è un drink consumato quasi solo nei territori ex-austriaci: a Brescia si chiama “pirlo” ed usa il vino bianco fermo anziché il prosecco, a Milano si trova ovunque tanto che molti pensano che sia tipico della città (in realtà l’Aperol è nato negli anni ’20 e la campagna pubblicitaria che ha reso popolare l’omonima versione dello spritz, solo dieci anni fa). Quindi che ci sia lo zampino degli austriaci, non ci piove.
Una fonte autorevole, la nobildonna padovana Mariù Salvadori De Zuliani, appassionata di cucina, non ha dubbi: è nato a Padova. Pensa te. Nelle sue memorie lo spritz era ormai la bevanda come la conosciamo oggi, non più il vino annacquato degli austriaci. Lei già negli anni ’50 aggiungeva il Campari, il Cynar o addirittura il gin, rendendo evidente che fosse diventato un drink italiano, per italiani, creato da italiani: nessuno come noi nel mondo abbina in modo così disinvolto l’amaro e il dolciastro. La De Zuliani fornisce anche la sua ricetta, in veneto stretto:
“un goto de vin bianco, 1/4 de bicèr de un amaro qualsiasi e scorzeta de limon. Ghe xe anca de quei che ghe zonta el “golosezzo” , ossia un giozetto de gin, oppur un’oliva impirada in t’un steccadente (…)”.
Quindi: gli austriaci allungavano il vino, i veneti hanno chiamato questo intruglio “spritz” e qualcuno, chissà dove e chissà quando, ha deciso di aggiungerci qualcos’altro. Forse negli anni ’20, quando dall’America arriva la moda del cocktail. Un esempio sono i drink inventati in quegli anni: il Negroni, il Milano-Torino, l’americano (chiamato così non perché nato in America, ma perché seguiva l’usanza americana del miscelare). Qualcosa del genere deve essere successa anche con lo spritz, sebbene venisse considerato da tanti come un cocktail volgare, da rozzi ubriaconi (o da tedeschi). I migliori bar di Venezia hanno infatti iniziato a servirlo soltanto da qualche lustro, più o meno dagli anni ’80, ossia quando la moderna versione dello spritz è diventata celebre in tutti gli ambienti.
Molto più spinosa è la questione della cotoletta alla milanese: come molti sapranno, esiste anche la schnitzel viennese, che si prepara più o meno allo stesso modo (le differenze: la viennese è più sottile e fritta nello strutto anziché nel burro). Il decidere se questa preparazione sia stata inventata a Vienna o a Milano ha rappresentato un dibattito durato decenni, la cui soluzione, che svelerò alla fine, è stata forse trovata.
Partendo dall’inizio: la tecnica dell’impanatura ha origine nel Nordafrica, da quel popolo, i berberi (imparentati con gli antichi egizi) che abita quelle terre da migliaia di anni, cioè molto prima dell’arrivo degli arabi. Con questi ultimi sarebbe passata in Spagna e poi… a Parigi. Città che ricorre spesso in queste nostre storie. Un cuoco francese infatti, un certo Menon (di cui non conosciamo il nome di battesimo) in un suo libro di ricette parla di un piatto che è sostanzialmente simile alla cotoletta moderna, anche se non viene ancora fritta ma grigliata o passata in forno e che, quindi, non vede come necessario l’uso dell’uovo. Quindi in teoria è tutto risolto: una ricetta arcaica perfezionata in Francia e poi arrivata altrove grazie ai viaggi e alle corti nobiliari ed ulteriormente raffinata, in particolare passando da Torino (come testimoniano alcuni libri di ricette e la posizione stessa della città, intermedia tra la Francia e l’Italia).
Invece no: si tratta di una disputa infinita tra Italia ed Austria. Una “È mia, no è mia” che dura da decenni. I viennesi, dal canto loro, portano come prova una ricetta del 1740, in cui però si parla di una bistecca “infarinata e fritta”. Quindi più una scaloppina che altro. Qualche decennio dopo viene ribattezzata col suo nome attuale, schnitzel, col prefisso “viennese”. Era dunque scontato per loro che venisse da lì. A Milano se ne parla dal 1855 ma con una ricetta più precisa, uguale a quella di oggi. Senza dilungarmi tra le varie dispute, che rappresentano una lotta incredibile fatta di “botta e risposta” tra i vari libri di ricette con un terzo incomodo (Trieste, ovviamente) in cui nessuno considera l’ipotesi più ovvia: due ricette evolutesi in modo parallelo per via di un’influenza comune, quella francese, e per via della facilità e della intuitività, per ogni cuoco che si rispetti, della preparazione.
A fare ancora più confusione ci pensa un signore, di professione giornalista ma di fatto cialtrone, di nome Felice Cunsolo, che negli anni ‘50 inventa di sana pianta in un suo libro (“Gli italiani a tavola” e poi in un’edizione della guida gastronomica del Touring Club curata da lui) di come il maresciallo Radetzky, quello delle guerre di indipendenza odiato dai somarelli delle scuole medie che non riuscivano ad impararne il nome, lodasse in un suo rapporto la bontà della “cotoletta alla milanese”. Quindi: prima noi. In realtà non esiste traccia di questo documento, anche se è stato da subito ritenuto suggestivo e quindi veritiero. Non solo: Cunsolo sosteneva che nel ‘300 la carne venisse impanata con polvere d’oro, sostituita poi col più economico pangrattato.
Logico che alcuni viennesi approfittassero della situazione definendo gli italiani, al solito, come “cialtroni”. Il problema è se noi siamo cialtroni (e Cunsolo lo era), molti di loro sono creduloni. Tuttora le guide turistiche austriache riportano che Vienna importò nel corso del tempo i piatti più prelibati del suo grande impero: il gulasch dall’Ungheria, la palacinka (una crêpe senza burro) dalla Slovenia e la cotoletta da Milano. Cosa, purtroppo per noi, falsa, viste le origini francesi della ricetta e le due successive reinterpretazioni, differenti e poi collegate fra loro solo per una casualità storica.
COTOLETTA ALLA MILANESE
(per quattro persone)
quattro nodini di vitello alti due centimetri
due uova
pangrattato, sale e burro (od olio di semi) q.b.
nessun limone
Le cotolette non vanno battute perché devono rimanere alte (in caso contrario si otterrebbe una schnitzel, e noi, da bravi patrioti, non vogliamo questo). Sbattere le uova in un piatto, immergervi una cotoletta per volta e poi passarla subito nel pangrattato, schiacciando con le dita per farlo aderire bene alla carne e salare leggermente. Far scaldare in una padella il burro o l’olio, in modo da immergere circa 1/3 delle cotolette. Far cuocere sei minuti per lato, asciugandola con la carta assorbente prima di servirla.
Photo Credit:
Plaza
Italian Ways
Bar Farm
Leonardo Romanelli
Dissapore
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