viaggio a Valencia

Siamo valenciani; oltre alla paella c’è di più

Premessa:

Tutti pensano a Valencia come ad una città carina, povera, in cui si mangia solo paella. In realtà è una città molto bella, elegantissima, con un centro storico piccolo ma pieno di sapori e ricette incredibili, con una cultura gastronomica forse più varia ed interessante anche della vicina (e più celebrata) Barcellona.

Non si può che arrivare in centro dalla Stazione Nord (in realtà è a sud, paradossi latini), un gioiello in stile liberty in cui scenderei anche se il mio treno fermasse da un’altra parte. Chi, dopo aver ammirato a bocca aperta la sala d’aspetto per qualche minuto pensando di essere in una locandina da primi ‘900, darà le spalle alla stazione troverà edifici nuovi, alti, bianchissimi, non proprio l’idea che uno può avere, nell’immaginario, della Spagna. L’obiettivo è essere inghiottiti dal centro storico, dalle sue piazze e dai suoi vicoli e mangiare come se non ci fosse un domani. Del resto sembra proprio quello che fanno i valenciani: dopo una colazione a base di bruschetta, usano consumare una sorta di “aperitivo” di mezzogiorno chiamato almuerzo, che permette di tirare fino all’ora di pranzo. Qui, sia per il caldo che per il sole (che tramonta molto dopo per via della latitudine) si pranza alle 14.30 e si cena non prima delle 21.30 (i ristoranti aprono alle 21, se uno arriva a quell’ora vede il personale che sta ancora apparecchiando). Quindi la ricca merenda non viene servita prima delle 18. Messa così sembra che questa gente pensi sempre a mangiare: è così.

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La splendida Plaça de l’Ajuntament (Piazza del Municipio) è un crocevia ed un punto di raccolta di locali scadenti, per turisti. I più attenti scorgeranno anche una vetrina elegante con scritto “Beher”. Si tratta di una marca di prosciutti spagnoli e quel negozio offre appunto degustazioni del celebre “pata negra”. La constatazione è dolorosa: il prosciutto crudo spagnolo è, di media, più buono di quello italiano. La possibilità più economica per assaggiarlo è un cartoccio, a prezzo basso, con cubetti o filamenti di prosciutto. Difficile trovare uno spuntino più sfizioso.
Uno spuntino, appunto: per l’almuerzo andiamo al Mercado Central. Immenso bazar dedicato soltanto al cibo in uno scenario liberty (ma và) di altissimo livello.

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Vi si trova qualunque genere alimentare a prezzo basso, carne, pesce, salumi, primizie. Con la particolarità che il cliente può anche acquistare la materia prima e farsela cuocere nei localini appena all’esterno. Noi puntiamo, però, alle tapas stellate: il Central Bar è a firma Ricard Camarena, chef con una stella Michelin che oltre che all’alta cucina, si dedica alle tapas. Queste ultime sono uno dei simboli della Spagna: antipastini da consumare in successione, accompagnati da bicchieri di vino. Di origine umile, vengono qui riproposti con abbinamenti fantasiosi e saporitissimi. Il bar di Camarena è un lungo bancone rettangolare con servizio frenetico e sgabelli sempre occupate. Non pensate di sedervi prima di venti minuti di attesa, coi valenciani (buon segno, che loro ci vadano) che hanno già finito di mangiare ma che indugiano nell’ultimo sorso o nell’ultima chiacchiera. La qualità del cibo è assoluta. Dalla tradizione ferrea (le patatas bravas, patate fritte a tocchetti speziate, con maionese all’aglio; i buñuelos di baccalà, sorta di frittelle, fritte in modo mirabile) a quella rivisitata come l’orecchio di maiale, carne notoriamente difficile da trattare, condito con mojo picón (salsa piccante con cumino e paprika). Per non parlare dei panini, vero marchio di fabbrica. Il segreto? Ingredienti del posto, trattati il meno possibile, cotti il giusto e con delle grandi salse. Sarei indeciso se prendere il panino, anzi il bocata, con seppia e ajoli (la maionese all’aglio, onnipresente ma non così pesante come uno crederebbe) o il panino “mercat”, con salsiccia (ricordate che viene sempre dagli stessi maiali con cui fanno il prosciutto pata negra…) e pisto, salsa aromatica al pomodoro. Penso che li prenderei entrambi, accompagnando con un ottimo bianco valenciano e, per digerire, l’orujo, una grappa spagnola fortissima e vagamente aromatica. Il conto? 35 euro. Non a persona, dico, in due. Si esce sazi e felicissimi, non prima di aver degustato, per gola e non per fame, un commovente tagliere di formaggi di vacca, pecora e capra provenienti dall’entroterra accompagnati da noci e da dulce de Membrillo, la confettura di mele cotogne che, in qualche modo, i siciliani hanno saputo trafugare.

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Manca molto alla merenda, si è giustamente pieni e, non prima di aver mangiato (a gennaio) un bicchiere colmo di fragole dolcissime acquistato in un chiosco del mercato, si fa un salto in quella che è l’attrazione più bella di Valencia, secondo me e secondo l’Unesco. La Lonja de la seda, il “mercato della seta” è un superbo palazzo in stile gotico, quando, 550 anni fa, la città aveva raggiunto un certo prestigio nel ramo tessile. Una stanza. Che sembra, però, molto più grande di quello che è. Colonne bianchissime, slanciate, maestose. Una testimonianza quasi titanica dell’eleganza di tempi passati. Andateci, a pancia piena.

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Dicevamo, la merenda. Se il pranzo lo abbiamo saltato perché soddisfatti dall’almuerzo, significa che come orari torniamo sugli standard italiani. Alle 16 circa non possiamo che dirigerci verso la cattedrale, stupenda chiesa medioevale concava la cui navata dà sulla piazza più bella della città. Evitate i caffè espresso dei bar nei dintorni (sì, lo dico perché chi scrive è stato così sprovveduto da ordinarne uno, orrendo, a due euro, per un proposito insensato fatto anni fa), piuttosto optate per un cortado, sorta di ‘marocchino’ con meno schiuma. Costa un po’ di più, ma non vi rovinerà la giornata.

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Passando alle cose serie, è impossibile andare via da Valencia senza aver assaggiato la horchata, una bevanda che, nel mondo, si trova solo qui. È ricavata infatti da un tubero, la chufa, che cresce quasi solo qui. Questa bevanda è ottima, aromatica, molto dolce e si accompagna ottimamente a due dolci che tutti conoscono: i buñuelos, simili alle nostre frittelle di carnevale da spolverare con zucchero e i churros, stick di pastella fritta (non eccelsi, per il mio gusto personale). Tutto questo si trova dovunque, ma i locali aperti da 200 anni li offrono con successo, evidentemente, da duecento anni. Come l’Horchateria Santa Catalina, con le piastrelle vecchio stile (= bagno della nonna) che rappresentano bene la benemerita arte delle ceramiche presente in città ed un servizio che ci si aspetterebbe da un locale storico. Scortese, sbrigativo, senza cura. Tanto la gente ci va. Infatti è pieno: ma l’horchata è da strapparsi i capelli.

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Bisogna tirar sera: la città vecchia ha la caratteristica di offrire poche attrazioni turistiche, ma tutte bellissime. Prendiamo come esempio la chiesa di San Nicolás, la “Cappella Sistina” di Valencia. Chiusa per restauri da anni ed aperta solo da qualche mese, è nascosta in un vicolo poco rassicurante. Ma diamine: entrateci. Pagate un biglietto d’ingresso pari a 1/8 della St. Paul’s Cathedral di Londra. Ditemi poi quale delle due chiese vi è piaciuta di più.

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È ora di cena: sì, lo so che i valenciani veri la paella la mangiano a pranzo. Ma 1) noi non siamo valenciani e 2) siamo più intelligenti del turista impreparato e sappiamo bene dove andarla a mangiare senza farci fregare. Con la premessa che tutti i locali che servono la paella sono pieni di turisti: i valenciani la cucinano a casa, non vanno certo a mangiarla fuori. Quanti di voi ordinerebbero le lasagne al ristorante, quando le mangiano dalla nonna? Appunto.
La paella merita un excursus: è praticamente l’unico piatto che molti conoscono di Valencia o addirittura della Spagna. È stata stuprata in ogni modo possibile e si trova anche in improbabili locali in Italia o in giro per il mondo, con le ricette più diverse. Paella”, innanzitutto, è il nome della pentola in cui viene cotta, una larghissima padella circolare a due manici. Inoltre è un piatto di recupero, coi prodotti della terra. La ricetta originale vuole coniglio, pollo, taccole, fagioli, lumache, rosmarino: niente a che vedere con le opulente portate ricche di molluschi e gamberoni che siamo abituati a vedere. Il mare è arrivato dopo, quando c’era ricchezza e quando c’erano i turisti, più schizzinosi ed abituati a prodotti nobili.
Il riso, lo sanno tutti, è stato portato dagli arabi nell’anno 900, prima in Sicilia e poi nel resto dell’Europa in loro possesso. Mandati via loro (per fortuna), è rimasto il riso. Si dovrebbe usare la variante “bomba”, che in Italia costa 8 euro al chilo (ci ho provato, a Milano, ma l’ho lasciato nel negozio) ed in Spagna circa un quarto. È molto raro, si coltiva nel delta del fiume Ebro, tra Valencia e Barcellona. Molti usano altre varianti del cereale, più generiche. Fino ai primi del ‘900, come quasi tutti i piatti “tradizionali” che poi tradizionali non sono, la ricetta non era codificata. Si usava quel che c’era nella miseria assoluta: arvicole (sì, i topolini), anguille, lumache, carciofi. Per poi diventare quella che conosciamo oggi, con tutte le varianti del caso. Se è veramente facile essere inculati mangiando a prezzi medio-alti una paella preparata una settimana prima, è anche semplice trovare dei locali in cui tutto è preparato a regola d’arte. Tipo La Riuà, gestito da una famiglia di valenciani (buon segno), arredato con ceramiche ed un certo gusto anni ’60 (buon segno) e sempre pieno (beh). Non ordinate come antipasto la tortilla de patatas, la classica frittata di patate simbolo della Spagna. Non perché non siano capaci di farla, ma perché già la paella per due (valenciana, classicissima, impeccabile) non riuscirete a finirla. Neanche con una caraffa di sangria, il celeberrimo vino speziato di queste parti, che qui è particolarmente pulita nel sapore.

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Prima di dedicarsi ad un meritato sonno digestivo, si tira tardi: siamo in Spagna, fa sempre caldo, camminare è piacevole. Un pretesto per non perdersi il cocktail che sta a Valencia come lo spritz sta a Padova: l’agua de Valencia, a base di spumante (qui chiamato “cava”), succo di arancia, vodka e gin. Il gusto dipende moltissimo dalla qualità degli agrumi. Qui la bevanda viene offerta in caraffe, senza badare alla sobrietà. Anche in questo caso è facile entrare in locali che la servono annacquata o scadente: non c’è questo pericolo nel caffè Infanta, in pieno centro storico. Un ottimo scenario, dall’arredamento intrigante e gestito da giovani, ottimo per finire la serata col torpore blandamente allegro offerto dalle dosi sconsiderate di agua de Valencia.

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Purtroppo il giorno dopo c’è poco tempo: ho volutamente tralasciato la parte nuova della città perché mi sembrava di fare un torto al lettore. Troppo bella, troppo diversa dal resto, troppo maestosa. Vale il viaggio, anche a digiuno, anche il prendere un aereo al mattino, venire qui, fare una foto e tornare a casa nel primo pomeriggio. Il museo delle scienze, i virtuosismi architettonici, l’acquario più grande d’Europa… Ho sempre considerato la Spagna una nazione sottosviluppata culturalmente e come costumi e fino a metà anni ’80 avevo ragione. Adesso gli spagnoli sono popolo che si è saputo rialzare alla grande ed ora non possiamo che invidiarlo. Provo ammirazione, dopo esserci stato.

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Purtroppo il nostro aereo non partirà in giornata, ma l’indomani sì. C’è tempo solo per una rapida colazione alla Casa del Panquemado, di fianco all’Horchataria, ad esempio, si trovano dolci tradizionali come i fartón, panini classici con glassa o la coca de llanda, pan di spagna con limone) o, tuttalpiù, per un pranzo. Qui si fa uno strappo alla regola del “mangiare solo tradizionale” e si va in un tapa-bar basco. I baschi, popolo ripudiato del mondo intero, la cui lingua fa sembrare l’ungherese un gioco per bambini, hanno la particolarità di servire le tapas sopra un pezzo di pane. Esattamente come fanno i veneziani nei bacari. Andate al Sagardì e scegliete tra sardine marinate, frittata di baccalà, patè di salame e fegato ed altre sciccherie. Con un sistema di calcolo del conto un po’ particolare: ogni bocconcino ha uno stuzzicadenti, voi lo depositate nel piatto e loro conteranno, alla fine, quanti stecchini avete lasciato. Si fidano. Ottima cucina, quella basca. Ma questa è un’altra storia.

PAELLA MISTA
(per quattro persone)

700 gr di pollo
400 gr di coniglio
350 gr fagiolini cornetti
piselli qb (surgelati, non in scatola)
paprika dolce
[se vuoi usare anche il pesce: 200 gr di calamari, due scampi a persona, due gamberi a persona, cozze qb, 200 gr di seppie] zafferano due bustine
concentrato di pomodoro
2 spicchi d’aglio
1 cipolla
brodo di pesce
80 gr di riso a chicco medio a persona
un rametto di rosmarino
olio
sale
acqua

-Fai aprire le cozze con soltanto acqua, tienile da parte togliendo mezzo guscio. Pulisci metà degli scampi e fai un brodo con gli scarti e le verdure di cui ti do la ricetta a parte. Non salarlo troppo perché poi al brodo aggiungerai l’acqua delle cozze.
– Taglia il pollo e il coniglio a pezzi, salali, scalda l’olio nella padella e falli rosolare bene (senza che brucino), da tutti i lati. Togli la carne e mettila da parte, imparando l’arte.
– Nello stesso olio salta, nell’ordine, le seppie e i calamari tagliati a cubetti, finché non dorano (vedi sopra). Togli e metti da parte. Salta poi i gamberi e gli scampi (prima quelli col carapace, poi quelli puliti), non per più di due minuti. Togli e metti da parte.
– Nello stesso olio (aggiungine man mano se si è assorbito e fallo scaldare) soffriggi la cipolla tagliata a pezzi, due spicchi d’aglio intieri che toglierai; appena la cipolla sarà un po’ soffritta aggiungi i fagiolini a pezzi e i piselli, lasciando andare per circa cinque minuti.
– Poi ri-aggiungi la carne, abbassi la fiamma al minimo e crei una sorta di ‘buco’ al centro della pentola spostando gli ingredienti sui lati. Aggiungi poi due-tre cucchiai di concentrato di pomodoro e la paprika, facendo cuocere sempre a fiamma lentissima, mescolando.
– Versa il brodo fino a quasi il bordo della padella, lasciando cuocere una ventina di minuti a fuoco medio e aggiustando di sale se necessario (se il brodo sarà leggermente su di sale non è un problema, verrà assorbito dal riso).
– dopo quei 30 minuti si aggiunge il riso; se il brodo risulta troppo poco, aggiungere dell’acqua calda. Il riso va mescolato bene in modo che sia tutto coperto dal brodo. In questo momento va anche aggiunto lo zafferano, poi mescolato.
Nei primi 7 minuti il riso va cotto a fiamma forte, in modo che assorba un po’ di brodo. Poi bisogna abbassare il fuoco quasi al minimo e lasciar cuocere altri 4 o 5 minuti, evitando così che l’amido rilasciato dal riso durante la cottura e che ha inspessito il brodo, bruci e si attacchi al fondo della padella. Se lo si ha, si può aggiungere un rametto di rosmarino.
Trascorsi 5 o 6 minuti, se la paella è rimasta senza brodo o quasi, lasciamo che cuocia gli ultimi 3 o 4 minuti a fiamma molto, molto bassa. Se la paella avesse ancora molto brodo, questi 3 o 4 minuti finali termineremo di cuocerla a fiamma media. Meglio comunque una paella leggermente brodosa con il riso cotto a puntino che una secca ma con il riso scotto o  ammassato o dura e bruciata.
– Aggiungere il pesce tenuto da parte un minuto prima dello spegnimento della fiamma, perché si riscaldi.

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Photo Credit:
Cueus
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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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