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Il Mo, il kebab cinese

Ormai a Milano non si parla d’altro. Il capoluogo lombardo, l’unica città italiana la cui cultura è realmente multietnica, è un crogiuolo culinario di qualsiasi sapore del mondo. E da qualche anno anche la stessa via Paolo Sarpi, il cuore della chinatown più grande della Penisola, si è trasformata dall’antico “borgo degli ortolani” a quartiere cinese degradato e pericoloso a uno dei templi della gastronomia della città. Un grande merito va a quella “ravioleria” senza nome che si divide in due vetrine, ai numeri 25 e 27, con menù diversi. Ma non si mangiano soltanto ravioli: c’è anche il Mo, il “kebab della Cina”.

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Agli Uiguri.

Non c’è una “cucina cinese”, ce ne sono decine. E la storia di questa ricetta è triste. La Cina è composta da tantissimi gruppi etnici diversi, alcuni dei quali non sono troppo contenti di cantare l’inno del Celeste impero. Gli Uiguri sono uno di questi. Gente di ceppo turco, islamica, arrivata dalla stessa zona dell’Asia centrale da dove sono partiti mille anni fa gli ottomani e, poco più in là, gli ungheresi. Hanno convissuto in pace (con qualche pausa significativa) per secoli fino alle pesanti repressioni del governo centrale, che vuole “cinesizzare” tutto e mal vede una minoranza dalla cultura così distante.

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Da quelle regioni, lo Xinjiang dove vivono gli Uiguri e dallo Shaanxi, quella dell’esercito di Terracotta, partiva la via della Seta. Sembra che lì faccia molto caldo, che tutti siano sempre in strada e che chiunque sia pronto a cuocere e offrire cibo squisito sul momento. Da quelle parti “rou ja mo” vuol dire, letteralmente, “panino di carne”. Cioè come, credo, loro chiamerebbero un hamburger. Per altri è semplicemente “il kebab cinese”. “Kebab” è un modo di cuocere la carne prima persiano e poi turco, molto più variegato della versione döner unta che si consuma in Italia. I cinesi dello Shaanxi lo fanno col maiale, gli islamici col manzo. Carne cotta in umido per ore in un brodo con una ventina di spezie. Era l’unico modo che avevano i contadini per conservare la carne: bollire la bestia intera, dare sapore con gli tutti gli aromi possibili e conservarla nello strutto in grandi recipienti da portare dietro durante le frequenti fughe.

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Il ripieno è morbidissimo, tagliato a coltello, insaporito ancora col pepe e inserito nel “Mo”, la focaccia di frumento semi-lievitata, cotta in forno e poi grigliata. Anche questo è kebab, il kebab della Cina, perché il pane è di tipo turco, perché è lì – al principio della via della Seta – che i mercanti da mezza Asia scambiavano le loro merci e portavano la loro cultura. E l’uomo, che da sempre ha mischiato le ricette e gli ingredienti che aveva (la “cucina fusion” non è certo un’invenzione degli ultimi 20 anni!) prima ha condotto verso oriente il pane, poi ci ha messo dentro la carne di manzo o di maiale con le spezie cinesi e infine lo ha riportato molto più a ovest, in Europa, in una città che inghiotte e mescola tutte le suggestioni culinarie possibili e che con il Mo – inutile dire che il gusto è molto più interessante di quello del döner kebab – rimanda lontanamente anche alla sofferenza di un popolo dimenticato e senza pace.

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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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