cibo di strada

Cibo di strada italiano parte 1

La penultima serata di Masterchef ha proposto, come tema di una prova, un concetto che da molti anni sembra essere stato riscoperto da tutti dopo decenni di oblio: il cibo di strada. Sarà per la diffusione di internet e la conseguente volontà delle persone di creare davvero un proprio gusto personale, sarà per la generale tendenza di questo periodo a riscoprire le tradizioni dopo averle dimenticate e ripudiate.
Qualunque sia il motivo, è da qualche tempo che imperversano libri, siti, itinerari turistici con lo scopo di illustrare tutti i “segreti” (ormai perlopiù svelati) di quello che è, a tutti gli effetti, un modo di mangiare radicatissimo nella nostra tradizione ed altrettanto rispettabile. Quasi ogni cultura ha i suoi cibi da strada, da cui si sono evoluti gran parte dei piatti più conosciuti e caratteristici: le poche cucine che ne sono prive sono anche le peggiori del mondo: Nord Europa, parte dell’Africa orientale, Australia.
La tradizione gastronomica italiana, che comprende una trentina (circa, al ribasso) di cucine diverse offre quindi un tesoro sconfinato. La prova a Masterchef, per me programma rispettabile e criticato spesso ingiustamente, era quella di eseguire tre ricette di street-food italiane divise in panini, fritti e spiedini. È logica l’impossibilità di mettere in vetrina tutti i cibi e le tradizioni: tuttavia le scelte erano abbastanza variegate ed onnicomprensive.
Voglio qui, col pretesto di analizzarle, introdurvi ad una breve storia ed al significato di queste ricette, sperando che sia uno stimolo ad approfondirle e provarle.

— PANINI

Tra i panini le scelte erano tre: brezel con würstel e crauti, borlengo e panino col lampredotto.

Brezel:

L’Alto Adige è una regione che appartiene all’Italia soltanto da cento anni, annessa per ragioni strategiche (spostare il confine in un luogo più sicuro) e non culturali. La tradizione e la lingua della popolazione sono profondamente legate all’Austria e alla Baviera e, dunque, anche le influenze culinarie sono chiarissime. Quella altoatesina è una cucina incredibile: unendo le tradizioni germaniche ad un clima generalmente più mite, che offre dunque più varietà di prodotti, regala alcuni tra i piatti più sottovalutati e squisiti d’Italia, anche se italiani non sono.
Il brezel nasce proprio in quell’area culturale che, nel Medioevo, rendeva l’Italia del Nord molto più vicina all’Europa Centrale che a Roma: dai monasteri dell’alta Lombardia questo pane, ricavato dagli impasti avanzati, che rappresentava la Trinità coi suoi tre buchi e la preghiera grazie alle piccole braccia incrociate, varcò le Alpi e arrivò nella bassa Germania, diventando cibo tradizionale di Pasqua già intorno al 1450. Con l’evoluzione delle tecnologie il prodotto si è, per forza di cose, perfezionato: nella preparazione industriale viene usata della soda caustica (sostanza pericolosa se manipolata) per conferire l’aspetto lucido e “bruciacchiato” .
Il servirlo con würstel e crauti è, in parte, una forzatura: di insaccati di maiale è piena la Germania e noi siamo abituati, nel mercato italiano, a conoscere soltanto il Wiener Würst, salsicciotto allungato, stretto, di colore marroncino. In realtà la tradizione vuole che il brezel venga mangiato a metà mattina o a merenda accompagnato soltanto da senape e da un ottimo Weißwurst (da pronunciarsi “vaissvurst”), una salsiccia a base di carni magre di manzo e grasse di maiale, con la pelle non edibile, di colore bianco per via di un trattamento speciale che non prevede l’uso di conservanti quali nitrito di potassio e di sodio (che colorano gli altri würstel).

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Borlengo:

Senza dubbio il meno celebre tra tutti gli street-foods proposti in quell’Invention test di Masterchef. Originario dell’entroterra tra Modena e Bologna, si tratta di una sorta di crêpe sottile e croccante (ma spugnosa man mano che si raffredda), servita calda ed accompagnata con un pesto di lardo, aglio e rosmarino (o, in alternativa, col lardo intero tagliato a fette sottili che si scioglierà a contatto con il calore). Le origini sono anch’esse antichissime: non c’è nulla di certo ed ogni paese (figurarsi) ne rivendica la paternità; l’unica cosa sicura è che il termine deriva, in qualche modo, da “burla” . Del resto il popolo emiliano sa scherzare in ogni occasione: purtroppo non si saprà mai chi, per fare uno scherzo a qualcuno, abbia inventato questa prelibatezza.

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Lampredotto:

L’emblema della cucina povera fiorentina, reperibile in quasi ogni quartiere del capoluogo toscano grazie ai chioschi ambulanti, detti “trippai” , che a prezzi popolari offrono questa ed altre pietanze a base di interiora di bovino. Il lampredotto, in particolare, consiste nell’abomaso (uno dei quattro stomaci) della vacca; esso è formato da una parte magra, chiamata gala e da una parte grassa più esterna, chiamata spannocchia. Viene tagliato a listarelle e bollito a lungo in acqua con sugo di pomodoro, cipolla, prezzemolo e sedano. Il panino, imbevuto nel brodo di cottura (trovo commovente quando il trippaio compie il gesto di inumidire, nel calderone, la parte interna del pane) viene poi accompagnato da abbondante salsa verde. Il gusto è delicato, caratteristico ed inconfondibile.
La trippa, del resto, è diffusa in praticamente tutta Italia, dal Veneto alla Sicilia, in cui ne ho mangiato la versione più estrema: bollita, in bianco, tagliata spessa e servita solo con sale grosso ed uno spicchio di limone.
Tuttavia la versione più incredibile di questo alimento si assaggia in Calabria: a Catanzaro, da sempre, si prepara il morzeddhu. Bollito di trippa ed altre frattaglie (cuore, fegato, milza) cotto con pomodoro, salsa di peperoni e peperoncino molto abbondante. Fino a qualche anno fa a queste leccornie era aggiunto anche l’intestino, in tutta la sua lunghezza. Al fortunato che, nella sua porzione, trovava il retto veniva assicurato che si trattasse del “boccone del re” .

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— FRITTI

Il fritto forse è un cibo più convenzionale: quasi tutto si può friggere, quasi tutti friggono, all’avventore difficilmente la cosa dispiace. Tanto che, non è un caso, il cosiddetto “fritto misto all’italiana” comprende qualsiasi cosa: frattaglie, verdura, perfino frutta. Forse il fritto è il vero e proprio trait d’union che unisce la nostra penisola, più degli spaghetti (che, fino a 60 anni fa, a Milano si sapeva a stento cosa fossero).
Qui infatti ho poco di interessante da dire: per paranza si intendeva in origine una barca a vela, in legno, adatta alla pesca nei mari poco profondi. Di conseguenza, per frittura di paranza si intende il fritto preparato coi pesci pescati da questa imbarcazione: triglie, sardine, scorfanetti, piccole sogliole. È diffuso in quasi tutte le nostre coste e diverso dal “fritto misto classico” , composto prevalentemente di molluschi e crostacei. Il segreto è infarinare, senza esagerare, i pesci, evitando l’uso di uova o pastelle varie.
Un’altra era il baccalà fritto alla romana: non ne parlo per scelta, dato che dedicherò a questo straordinario prodotto uno dei prossimi articoli.
Infine, il supplì: polpetta di riso al ragù (concetto simile all’arancino/arancina), dal francese surprise, ripiena di mozzarella. La caratteristica più rilevante è che il supplì, se ben caldo, una volta aperto la mozzarella crea una specie di “filo” tra le due parti. Non a caso, in gergo, viene chiamato “supplì al telefono”.

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— SPIEDINI

Lo spiedino permette, se si ha l’accortezza di tagliare la carne in modo regolare, una cottura uniforme, un facile trasporto ed un modo di mangiare versatile ed informale.

Arrosticini:

Gli Abruzzi sono, tuttora, una delle regioni più selvagge e misconosciute d’Italia. Cucina di mare ma soprattutto di terra, arcaica e dimenticata da molti. Gli arrosticini ultimamente si stanno facendo conoscere grazie alla pubblicità ed alle varie fiere, ma per lungo tempo il loro nome era associato a qualcosa di sconosciuto e lontano. Si tratta di piccoli spiedini a base di carne di pecora (dunque un animale vecchio, dal gusto selvatico e non troppo saporito) cotti alla brace ed abbondantemente salati. La loro bontà è in gran parte dovuta all’intelligenza di chi li prepara, al saper alternare pezzi di carne magra, di carne grassa e di interiora.

Bombette:

Si tratta di spiedini della tradizione pugliese (apro una parentesi: la sola regione Puglia possiede due, se non tre, cucine diverse. Immaginate questi numeri per quasi ogni regione italiana e fate il conto), in particolare di quella zona tra le province di Bari, Taranto e Brindisi.
Il concetto è molto semplice: una fettina di coppa di maiale cruda (un taglio che, nel Meridione d’Italia, è chiamato “capocollo”) che avvolge del prezzemolo e del formaggio canestrato o pecorino; il tutto poi cotto alla brace.
Questa, perlomeno, è la versione più commercializzabile. Soprattutto nella zona di Bari città esistono involtini con lo stesso ripieno interno; ma, a differenza della coppa, come involucro viene usato l’intestino del puledro, accuratamente lavato. Tutto un altro sapore, ma solo per i veri mangiatori.

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I più attenti di voi, nonché quelli che hanno visto quella puntata di Masterchef, si sono accorti che in questa mia scarna carrellata mancavano tutti i cibi di strada palermitani. Non è un caso: ritengo Palermo la capitale quantomeno Europea del cibo di strada (non volendo scomodare Bangkok o Guangzhou) e una delle tre città italiane più belle. È dunque automatico che io voglia dedicargli l’intera seconda parte di questo articolo, di cui parlerò tra sette giorni.

ARROSTICINI

Ingredienti:

400 gr di coscia di agnello (o di pecora, più fedele alla tradizione)
200 gr di frattaglie di agnello o di pecora (trippa, fegatini, animelle anche se sono introvabili)
16 cubetti di pancetta dolce
paprika dolce
salvia, timo, olio extravergine d’oliva, sale

Tagliare la coscia d’agnello a cubetti più regolari possibile, salarli ed infilzarli in uno spiedino. Pulire le interiora e sbianchirle (ossia, sbollentarle) in acqua leggermente acidulata. Farle raffreddare e poi tagliarle a tocchetti della stessa dimensione.
Preparare poi gli spiedini, alternando i tre tipi di carne (alternativa, più semplice come gestione della cottura: preparare uno spiedino solo di carne magra e uno solo di interiora e pancetta).
Cuocere tutto sopra una griglia leggera, sopra cui è stato adagiato un rametto di timo. Gli spiedini, in quanto di piccole dimensioni, cuoceranno in pochissimi minuti.
A parte mescolare la paprika con un goccio d’olio ed un cucchiaio di acqua, fino ad ottenere una sorta di salsa densa, da servire insieme agli arrosticini.

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Photo Credit:
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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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