Al mio amico Davide Costantino, vetusto almeno quanto queste ricette.
Gli antichi romani, si sa, amavano mangiare, tanto da vomitare appositamente, durante i loro banchetti, per avere il pretesto di mangiare di nuovo. Ed infatti è così che ci si immagina la vita dei ricchi, soprattutto nell’età Imperiale: feste sfarzosissime, orge, montagne di cibo servite in modo spettacolare ed insolito per stupire gli invitati. Era sicuramente un popolo che, se non lo era realmente, si sforzava di essere raffinato ed attribuiva al cibo un grande valore culturale. È però ovvio che, se qualcuno di noi fosse ora catapultato indietro nel tempo e si trovasse commensale in una di quelle cene, difficilmente mangerebbe: anzi, probabilmente sarebbe talmente disgustato da aver voglia di scappare all’istante o di considerare pazzi tutti gli altri presenti, che invece si starebbero leccando i baffi.
Come facciamo a conoscere così bene la cucina dell’antica Roma? Oltre che dalle varie opere letterarie che, descrivendo la vita di tutti i giorni si trovano per forza di cose a dover parlare anche del momento dei pasti, anche per un libro, chiamato De re coquinaria (Sull’arte culinaria), scritto dal gastronomo Marco Gavio Apicio, probabilmente il primo libro di ricette di cui si abbia una conoscenza storica.
Apicio era un patrizio romano, estremamente ricco, vissuto durante l’epoca dell’imperatore Tiberio (per intenderci: gli anni in cui sarebbe stato crocifisso Gesù). Come molti suoi contemporanei di stato sociale similare era eccentrico e forse crudele: si raccontava che nutrisse le sue murene con la carne degli schiavi e che si sia ucciso dopo aver sperperato tutto il suo patrimonio. Il suo ricettario in realtà non è un libro metodico e sistematico come ci si aspetta da quelli odierni, bensì una sorta di raccolta di appunti sparsi che testimoniano il grande amore che costui aveva per il mangiare ed il modo in cui quella cultura vedeva gli alimenti ed i sapori in generale. Sfogliandolo si nota subito come i Romani privilegiassero il pesce alla carne e come venisse data più importanza al condimento che alla proteina stessa: Roma era veramente il centro del mondo e lì era possibile reperire gli alimenti di ogni parte del mondo conosciuto, dagli aromi alla frutta ai vari tipi di animali. Spesso il piatto era giusto il pretesto per poterlo annegare in salse, dolci o salate e provare sempre nuove combinazioni.
Protagonista indiscusso dei condimenti romani era il garum: salsa liquida di pesce, forse di origine greca, ottenuta facendo “fermentare” (marcire) al sole le interiora di pesce azzurro che venivano poi salate e, in qualche modo, pressate per ottenere un liquido semi trasparente. Attualmente sarebbe trovato disgustoso, ma i romani lo mettevano su tutto, spesso anche al posto del sale: Apicio lo usa come condimento in ben 20 delle sue ricette, anche se, paradossalmente, non spiega come produrlo; evidentemente era un prodotto talmente comune che egli non sentiva il bisogno di spiegare ai suoi contemporanei nulla di più a riguardo. Ne parlarono tuttavia altri autori: da Plinio il Vecchio, tuttologo dell’antichità, estimatore del garum a tal punto che lo avrebbe usato anche come medicinale a Seneca, che invece lo considerava simbolo di decadenza di costumi, tanto da definirlo “piccante marciume putrefatto”. Come già detto, senza dubbio ai giorni nostri il garum sarebbe considerato ripugnante, e questo è un simbolo esemplificativo di come il palato delle persone e, per estensione, di un popolo, sia modellato da convenzioni culturali radicatissime.
Non è un caso che le migrazioni dei popoli barbarici, che contribuirono al crollo dell’Impero (nulla di negativo, intendiamoci: una società ormai allo sbando è stata semplicemente sostituita da qualcosa di nuovo) segnarono la fine dell’uso del garum: queste genti, di origine germanica, avevano convenzioni alimentari troppo diverse per poter apprezzare un prodotto del genere. Proprio per questo, in pochi decenni, cadde in disuso. Attualmente esistono due prodotti che possono vantarsi di essere o i discendenti di questa salsa così controversa o comunque dei parenti prossimi: la colatura di alici, considerata alimento da gourmet e prodotta nel Sud Italia e la nước mắm, la “salsa di pesce” vietnamita che di sicuro si è sviluppata parallelamente, e non in sintonia, col garum ma che ha una lavorazione ed un odore (probabilmente) similare e soprattutto viene usata per lo stessa ragione: insaporire gli alimenti al posto del sale.
Dicevamo, i romani mangiavano soprattutto pesce e condivano in modo ricco e, per così dire, “barocco” : se non usavano il garum apprezzavano il mosto cotto e rappreso, chiamato defrutum, le spezie o un’altra salsa a base di aceto, pepe ed aromi chiamata oxygarum. Ma sarebbe stato troppo facile condire della carne di manzo: Apicio ci racconta che l’animale prediletto era, senza dubbio, il ghiro, allevato in recipienti di terracotta bucherellati in cui era impossibile muoversi e nutrito con frutta secca e miele. Data l’immobilità, la carne diventava grassa ma tenera. Il metodo è disumano ma, a ben vedere, non troppo di più di certe forme di allevamento intensivo praticate oggi.
Apicio lo preparava così: dopo che l’animale veniva ucciso, bisognava farcirlo con delle polpettine di maiale e con le interiora tritate del ghiro stesso insieme ai pinoli, al pepe, al garum (ovviamente) e alle foglie di silfio, una pianta ora estinta simile al finocchio selvatico. In seguito andava cotto o alla brace o in forno, e servito cosparso di salsa al miele. Affiancate a ricette tutto sommato convenzionali, come la Terrina di crema di formaggio e pesce salato e la Zuppa di cipollotti secondo Lucrezio, sfogliando il libro del nostro gastronomo si possono imparare a cucinare il pappagallo arrosto o l’utero di scrofa ripieno e si può apprendere una tecnica molto particolare che vuole la carne cotta più volte: prima in acqua, poi nel latte, in seguito nell’olio ed infine in una sorta di salsa speziata. Lo scopo sarebbe stato quello di insaporire il più possibile le vivande, come se fosse servito dati i condimenti che sarebbero poi stati aggiunti, e la falsa credenza che il potere nutritivo degli alimenti sarebbe cresciuto con la cottura, quando in realtà è l’opposto.
Tolti i banchetti dei patrizi più goderecci, che rappresentavano qualcosa di molto più complesso di una semplice cena tra amici, i pasti principali degli antichi Romani “normali” erano tre: il lentaculum, il prandium e la cena. Gli equivalenti di colazione, pranzo e cena. I primi due venivano considerati secondari e spesso uno dei due era proprio trascurato: non era raro che la colazione consistesse in un bicchiere d’acqua che accompagnava gli eventuali avanzi della sera precedente. Il pranzo invece prevedeva del pane con alimenti semplici come uova, formaggi, legumi o quel che rimaneva dalla lavorazione del garum, ossia la poltiglia solida rimasta dopo la spremitura del pesce, chiamata allec o, da alcuni, liquame (sì), apprezzatissima e consumata da tutti. La cena era il pasto principale e forse, per moltissime persone, l’unico: bisogna tenere conto che Roma, all’apogeo, aveva circa un milione di abitanti; soltanto 2000 potevano definirsi “ricchi”. Il restante 99,8% degli abitanti era sulle soglie della miseria, in case senza bagno e cucina, piccole e soggette agli incendi ed alle intemperie. Si preparavano i cibi in una cucina comune nel cortile o si andava all’osteria, spesso in orari molto tardi che quella zona d’Italia conserva ancora oggi (dalle 8 alle 9 di sera).
Immaginate insomma di trovarvi catapultati nella caotica Roma di 2000 anni fa e di essere invitati a cena da quel golosone sconsiderato di Apicio: tra il garum onnipresente, i ghiri farciti, il moretum (mefitico formaggio all’aglio) ed i piedi di cammello non saprete se assaggiare a costo di svenire all’istante o scappare col rischio di apparire maleducati. O se limitarvi ad osservare i costumi di allora, sicuramente eccentrici ed improponibili al giorno d’oggi ma che rappresentavano allora la normalità di una cultura che nel corso dei due millenni successivi, con tutte le commistioni possibili ma con radici altrettanto solide, sarebbe diventata la più articolata del mondo, in ambito non solo culinario.
Letture consigliate:
– De re coquinaria, di Apicio (ovviamente)
– La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’Impero, di Jérôme Carcopino (Laterza Editore)
SPAGHETTI ALLA COLATURA DI ALICI
Il garum è irriproducibile ed immangiabile per gli standard odierni. Tuttavia esiste un suo discendente (chiaramente più raffinato e privo di interiora o marciume vario), la colatura di alici, che è diventato un prodotto costoso ed amato dai buongustai di tutto il mondo. Viene usato con molta parsimonia sia per il prezzo sia per il sapore molto accentuato. Si produce a Cetara, un paese del salernitano ed in Sicilia.
(per due persone)
160 gr di spaghetti di ottima qualità
tre cucchiaini da caffè di colatura di alici
due spicchi d’aglio
¼ di peperoncino fresco
prezzemolo tritato fresco
la scorza di mezzo limone, privata della parte bianca
olio extravergine d’oliva
Lessare gli spaghetti in acqua non salata (è importante). In un padellino fare scaldare l’olio, aggiungere l’aglio tagliato a rondelle ma privato dell’anima centrale, insieme alla scorza di limone intera e al peperoncino tritato finemente. Dopo massimo un minuto spegnere il fuoco e lasciare riposare fino alla cottura degli spaghetti. Una volta che l’olio sarà tiepido, aggiungere il prezzemolo già tritato e togliere la scorza di limone.
Amalgamare tutto nella pasta e condire, appena prima di servire, con la colatura di alici: mescolate ed assaggiate man mano ma, essendo il prodotto molto salato, è difficile che ne servano più di tre cucchiaini. Se volete esagerare usatene un cucchiaio. Mescolate un’ultima volta e servite con un vino bianco, di mare, tipo il Vermentino di Gallura.
Photo Credit:
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/7/7f/Apicius1709_bis.jpg
https://archeoricette.files.wordpress.com/2013/05/museo-archeologico-nazionale-di-cosa-grande-anfora-glinarium-per-allevare-i-ghiri.jpg?w=300&h=232
http://blog.giallozafferano.it/cookingonair/wp-content/uploads/2015/02/garum.jpg-1.jpg
http://www.maritimoderni.it/wp-content/uploads/2015/10/garum.jpg
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