Al mio amico Tommaso e alla sua passione per l’arte.
Da quando l’uomo è stato in grado di soddisfare l’irrefrenabile bisogno interno di rappresentare le scene della vita quotidiana o le sue superstizioni, sia per esorcizzarle che per tramandarle, le prime cosa che ha disegnato sono state scene di caccia. Ossia, l’istinto ha suggerito che la cosa più importante che doveva rimanere impressa nella roccia, sulle pareti delle caverne o sulle pietre era la ricerca del cibo, motore essenziale della nostra esistenza. L’arte (perché anche quella di 20.000 anni fa era arte), grazie ai suoi simboli, deve essere da subito sembrato un veicolo formidabile sia per tramandare queste scene in modo realistico e sia per trasmettere, attraverso un’immagine, il significato di “qualcos’altro”. Sia le difficoltà e la precarietà di un’esistenza spesso grama e sia, soprattutto, il tentativo di attirare la benevolenza di qualche dio e di esorcizzare carestie ed epidemie.
Questi disegni rupestri come sorta di offerta immutabile alla divinità andarono scemando nel corso dei millenni. Durante l’epoca romana, l’unica civiltà dell’antichità che ha lasciato testimonianze pittoriche significative grazie soprattutto ai mosaici e ai graffiti di Pompei, il cibo veniva rappresentato in modo più terreno, come illustrazione della funzione nutrizionale o come semplice soggetto naturale di animali.
Il medioevo meriterebbe invece un capitolo a parte (che sarà pubblicato, prima o poi). Epoca in cui il simbolismo riguardava qualsiasi cosa, in cui dominavano la superstizione e la paura folle della divinità, con l’incrocio tra cristianesimo e paganesimo che non permetteva di distinguere bene le due cose. Il cibo, quasi mai abbondante se non nelle tavolate dei nobili o dei vescovi, richiedeva precisi rituali, tabù specifici a seconda dei giorni, dei periodi dell’anno e addirittura della professione e veniva usato anche come ostensione di ricchezza e di potere nei banchetti. Non tutti sanno che, ad esempio, le spezie erano richiestissime e, in quanto costose, il loro uso dimostrava la ricchezza del padrone di casa. In altre parole: se eravate invitati a cena da un amico ricchissimo, costui avrebbe fatto ricoprire tutte le portate da talmente tanto pepe che non sareste mai riusciti a mangiare niente (ma lo avreste invidiato perché poteva permettersi tutto quel pepe). Il problema è che la storia dell’arte sembra ignorare il mondo culinario dell’epoca: tra ossessioni religiose (soprattutto in Italia) e celebrazioni del potere dei vari sovrani, il cibo viene ritenuto poco importante da rappresentare e usato, al massimo, come soggetto di contorno nei vari banchetti reali o di vita quotidiana.
La stessa “Ultima cena”, dipinta da chiunque (da Giotto in poi, la migliore per chi scrive è quella del Tintoretto) non sembra dare troppa importanza alle derrate che Gesù e i suoi discepoli avrebbero consumato in quella serata cruciale, ma ad una simbologia che ci porterebbe troppo lontano.
La svolta si ha col ‘500: l’opera più famosa (una delle prime, ma non la prima in assoluto) in cui il cibo è unico protagonista e non accessorio è la “Canestra di frutta” di Caravaggio, in cui si capisce bene il significato del tempo che passa grazie alle mele bacate e alle foglie appassite..
In realtà già da qualche decennio prima nei territori ora corrispondenti al Belgio e ai Paesi Bassi c’era una scuola di pittura floridissima che, in appoggio alla riforma protestante, non dava troppo spazio alle scene bibliche o di vite dei santi preferendo la vita quotidiana. Si tratta di spaccati straordinari della società di allora, nella sua genuinità semplice ma anche nella sua violenza malcelata. Questa “Scena di mercato” (1550) dell’olandese Pieter Aertsen
illustra bene quello che voglio dire. Ormai si parla di riproduzione degli alimenti, ancora vivi o morti che fossero, come puro gusto estetico e non più come simbolo di qualcos’altro. L’autore amava le scene di mercato ed i dettagli precisissimi delle bancarelle. E così le riproduceva, esattamente come se avesse dipinto il ritratto di una persona. Lo stesso si può dire della sua opera più celebre, il “Banco di macelleria” (1551).
Anche un momento di pura gioia come un matrimonio può diventare un pretesto, per un maestro come Pieter Bruegel il Vecchio (in genere appassionato di soggetti molto più degradati) per rappresentare uno spaccato perfetto del suo secolo gramo: nelle “Nozze di contadini” (1568) si possono osservare la zuppa, il pane, la birra: probabilmente tutto quello che due persone umili avevano a disposizione e potevano offrire ai loro invitati.
In questi casi dunque gli alimenti vengono utilizzati per indicare situazioni socio-economiche di vario genere (la zuppa indica la povertà, la carne e l’uva la ricchezza) ma assumono sempre di più il ruolo di protagonisti assoluti dell’opera nelle loro forme più diverse, dalle pietanze disposte in maniera più o meno casuale su una tovaglia, ad elementi distribuiti in modo strategico sulla scena, fino a costruzioni strutturate dove gli alimenti formano uno schema preciso.
Particolarmente interessanti, a tal proposito, sono le opere di Giuseppe Arcimboldi, che dona a qualunque tipo di alimento un aspetto antropomorfo. Si tratta dell’apice estremo del manierismo, ormai proiettato verso il fantastico e l’impossibile.
In questa opera (“L’imperatore Rodolfo II in veste di Vertumno” , 1591) il volto e il busto del personaggio sono interamente realizzati usando i vegetali. Ne deriva sia un effetto di stupefacente realismo, data l’esattezza della rappresentazione dei vari prodotti e sia di enorme astrazione, visto che i nostri sensi sono tratti talmente in inganno da costringerci ad osservare diverse volte il dipinto per renderci conto veramente di che cosa si tratti. Il risultato è veramente inquietante e ben si inquadra nel periodo storico che precede di pochissimo il barocco, il cui obiettivo era ormai solo quello di stupire e disorientare qualunque tipo di osservatore. Tale e tanta è ormai la crisi degli ideali di misura, proporzione e razionalità, che di nulla può esserci più certezza. In questo contesto di crescente fuga dalla realtà non c’è dunque da meravigliarsi se frutta o verdura (ma anche crostacei o pesci, in altre sue opere) si riducono a semplici punti di vista e che l’abilità fantasiosa e farneticante di un Arcimboldi possa renderli perfettamente intercambiabili.
Si tratta, dunque, di punti di vista. In realtà (e Arcimboldi probabilmente non lo sapeva, o non ne era interessato) si stava in quegli anni aprendo definitivamente la strada alla “pittura di genere”, forse meno eccitante delle rappresentazioni storiche o mitologiche, ma sicuramente più interessante dal punto di vista storico e sociale. L’ultimo dipinto di questa prima parte non può che essere “Il mangiafagioli” di Annibale Carracci (1584)
una piccola tela ritenuta forse anonima ma molto interessante per i suoi dettagli. Il protagonista è, appunto, il piatto di fagioli, con un popolano che si accinge a divorarlo con impazienza e voracità (dovuta dal fatto che, probabilmente, quel pranzo egli potesse permetterselo di rado). L’atmosfera è cupa, tenebrosa, solitaria, la prospettiva non esiste. La miseria assoluta si nota dall’espressione e, soprattutto, dalla mano che stringe il pezzo di pane come se qualcun altro potesse rubarlo. Questo studio dettagliato del “naturale” vuole opporsi con forza al manierismo e ai suoi eccessi. I colori spenti accentuano questa desolazione. Si apre definitivamente la strada all’arte del quotidiano, che dal punto di vista storico-gastronomico offrirà gli spunti di gran lunga più interessanti, di cui si parlerà nella prossima puntata di questa piccola rubrica.
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Ital News
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Francesco Morante
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