Dopo il ketchup non potevano mancare le patatine fritte, in questa piccola rubrica a puntate che vuole illustrare la storia degli alimenti più conosciuti e venduti nel mondo: quelli da fast-food.
Bisogna necessariamente fare un passo indietro, nell’epoca delle grandi esplorazioni e di quello che viene chiamato dagli storici lo “scambio colombiano”: provate a pensare a cosa sarebbe la cucina italiana senza le patate, senza il pomodoro, senza il mais e senza molti tipi di fagioli. La portata dello scambio si capisce dunque osservando che questi prodotti, prima del 1500, in Europa non c’erano: oltre alla carne, al pane e al pesce si mangiavano essenzialmente foglie e cereali. Niente polenta e niente sugo di pomodoro. E niente patate fritte.
Questo tubero è probabilmente originario delle Ande, in cui viene coltivato da millenni. I primi a parlarne sono i conquistadores di ritorno in Spagna, che ne avevano portate dietro moltissime per nutrirsi durante il lungo viaggio. Non sappiamo se era un alimento già apprezzato o se veniva mangiato soltanto perché non c’era altro, ma è certo che la patata come cibo dei marinai si è diffusa subito per tutte le rotte dell’Atlantico. Si conservava a lungo con qualunque temperatura e costava poco: cosa chiedere di più ad una provvista per viaggi lunghi mesi o anche anni? Nel frattempo in Europa non era ben chiaro a cosa potessero servire le patate: i medici e i botanici (professioni che spesso coincidevano) non erano propriamente entusiasti, anche perché né Aristotele (filosofo che non ha mai avuto ragione in vita sua) né Plinio né Virgilio ne avevano mai parlato. Inoltre, a differenza del mais, che ebbe immediato e larghissimo successo, non era possibile farvi il pane. Per i primi cinquant’anni dunque l’unica reazione che la patata poteva suscitare era la freddezza.
Fu Francis Drake, il leggendario corsaro britannico (corsaro non vuol dire “pirata”: i corsari erano autorizzati a depredare le navi spagnole nientemeno che dalla regina) il primo a intuire che le patate potessero essere coltivate dalle sue parti, dato che fino a quel momento, oltre al cibo dei marinai, erano diventate anche provviste dei pescatori, che le scambiavano col pesce da loro catturato. Come è accaduto per il pomodoro, lo scetticismo della popolazione fu però grandissimo: i campi erano tutti coltivati a cereali, con una rotazione delle colture ferrea ed una preparazione del terreno ad hoc. Inoltre le leggi di allora non permettevano, nei campi “aperti” (cioè non negli orti) di coltivare niente che non fosse frumento. Il motivo principale per cui circa dal 1750, nell’ordine in Olanda, Scandinavia, Germania, Francia ed Irlanda, la patata diventò un cibo comunissimo ed occupò tutti i terreni incolti o a riposo, è senza dubbio il clima: nella cosiddetta “piccola era glaciale”, una serie di inverni particolarmente freddi e prolungati che colpivano saltuariamente l’Europa nel XVIII secolo, spesso la patata era l’unico alimento che cresceva e la cosa spinse i governi a convertire le coltivazioni. La patata era diventata spesso l’unica salvezza per milioni di persone e, anzi, è stata anche uno dei motori della rivoluzione industriale: nutriente, economica, poteva venire coltivata anche nei piccoli orti dietro le case degli operai. In alcuni casi, come in Irlanda, addirittura in pochi decenni divenne praticamente l’unica coltura, e sappiamo tutti cosa sarebbe successo nel 1848, quando un parassita distrusse 1/3 dei raccolti e fece morire di fame il 25% della popolazione.
La ragione per cui, invece, la patata si affermò in Italia potrebbe essere dovuta ad un vulcano. La storia, assolutamente incredibile, ha origine in Indonesia, territorio ballerino dal punto di vista sismico e vulcanico. Ogni tanto qualche isoletta del vastissimo arcipelago ha la cattiva abitudine di esplodere, per via di eruzioni sottomarine potentissime ed è quello che accadde nel 1815 sull’isola di Sumbawa, in cui si trovava il vulcano Tambora. “Si trovava” perché l’isola fu totalmente distrutta e la potenza dell’esplosione fu tale da oscurare il sole per qualche tempo, per colpa delle polveri scagliate in cielo: l’estate del 1816 fu un lungo autunno, piovoso e freddo e molti raccolti andarono perduti. Gli abitanti di Taranto, per fare un esempio, raccontano di come a maggio sia scesa dal cielo neve rossa e gialla (probabilmente residui della lava e del magma). Neve a maggio significava carestia, in un periodo storico in cui il commercio era già in crisi e le guerre napoleoniche avevano lasciato soltanto distruzione. Tra le varie soluzioni, alcune efficienti ed altre meno, per sfamare la popolazione spiccava quella del medico pisano Francesco Chiarenti, che coltivava patate da anni nei suoi terreni: pur con tante resistenze e scetticismo, grazie al tubero misterioso proveniente dall’America, la carestia fu vinta.
Passando ai tempi contemporanei, negli ultimi anni sono cresciuti come funghi (o come patate) i chioschetti che vendono “patatine fritte olandesi”. Probabilmente Amsterdam ha più appeal di Bruxelles, ed è l’unico motivo plausibile, dato che il più celebre snack salato del mondo è tutto tranne che olandese. I belgi si vantano con orgoglio che le patatine fritte siano roba loro, con ragioni più o meno valide: già nel 1680, nella zona francofona, gli abitanti quando il fiume era ghiacciato usavano tagliare le patate a forma di pesce e friggere quelle, per accontentare i bambini. Se questa è probabilmente una diceria (la povera gente non sprecava certo così tanto olio) è invece accertato che dalla rivoluzione francese in poi, a Parigi si friggessero patatine: in particolare nella zona del pont neuf (“ponte nuovo”), che poi ha dato il nome ad un tipo di taglio usato in cucina. Quindi: Francia o Belgio? Impossibile saperlo, e quindi faccio decidere ad Asterix e Obelix: nel cartone probabilmente più bello di questa serie, Asterix e le dodici fatiche, i due eroi devono finire una cena pantagruelica preparata da un cuoco belga, e quest’ultimo serve loro delle patatine fritte, senza però dirne il nome (per forza, eravamo nel 50 Avanti Cristo!): secondo lo chef, si trattava di “radici, affettate e fritte, anche se non so ancora come chiamarle”. Quindi: fino a prova contraria, mi piace pensare che la capitale della chips sia Bruxelles, anche perché se non è chiara la città precisa, è evidente che l’aria sia, grossomodo, quella al confine tra i due stati.
La svolta vera però si è avuta nella prima guerra mondiale: i soldati americani sul fronte belga si innamorarono subito di questo snack e decisero di portarlo a casa. Avendo però un’idea molto approssimativa di dove si trovassero, le chiamarono “french fries”, che è il nome con cui tuttora vengono conosciute negli States. La diffusione in America fu enorme, immediata, gigantesca: ma erano ancora patate tagliate più spesse di come siamo abituati ora. L’ultima e definitiva versione “a fiammifero” si deve forse a George Crum, un cuoco di origine indiana che lavorava negli Stati Uniti: un cliente incontentabile avrebbe mandato indietro per tre volte un piatto di “french fries” e lui, indispettito, le avrebbe tagliate più sottili possibile nonché fatte diventare talmente croccanti da non poter più essere mangiate con la forchetta. Il cliente gradì tantissimo e, in un attimo, la voce si sparse. La globalizzazione avrebbe poi fatto il resto, e non serve spiegare ora quanto siano importanti, conosciute e celebrate le “patatine fritte”.
Photo Credit:
Retro Planet
Storiologia
CDN History
Dietaland
Vuoi contattare direttamente Davide? Compila il modulo qui di seguito!
[contact-form-7 id=”1594″ title=”Contattami manny”]