Cucina fusion

Il grosso equivoco della cucina fusion

Sorrido spesso quando sulle brochure dei ristoranti di prossima apertura che ricevo per posta o nel sommario di alcune ricette su internet, leggo frasi che si riferiscono alla “vera tradizione italiana” . Cosa si intende per “vera” , cosa si intende per “tradizione” e cosa si intende per “italiana” ?

La maggior parte dei piatti che siamo abituati a consumare e che, in modo scontato, percepiamo come appartenenti in pieno alla nostra cultura e immaginiamo di origini millenarie, non hanno più di duecento anni! Un esempio? si parla di “pasta al pomodoro” soltanto nel 1839, nel «La cucina casareccia in dialetto napoletano» scritta da Ippolito Cavalcanti.
Ed anche andando ulteriormente a ritroso nei secoli: come è possibile considerare “tradizionali” ricette preparate con prodotti che, sei secoli fa, erano sconosciuti? Insomma, ha senso che il termine “cucina fusion” sia percepito come una novità del momento, o degli ultimi anni, quando in realtà si tratta di una costante nella storia della cucina, sia nazionale che mondiale?

Cercando di fare chiarezza e di distinguere il caso italiano da quello internazionale; se è vero che l’Italia è (pur con tutte le invasioni che l’hanno sempre contraddistinta) una nazione prettamente latina, per lingua, mentalità e retaggio culturale, è altrettanto certo che del modo di mangiare degli antichi Romani è rimasto ben poco: perfino il garum, salsa a base di interiora di pesce che ora troveremmo immangiabile ma che i latini usavano per condire qualsiasi cosa, ha come unico discendente diretto la colatura di alici: un condimento di origine campana, certamente buono, ma costoso e non certo conosciuto da tutti.
Garum che, immagino, sarà stato trovato ripugnante anche dalle popolazioni barbariche che hanno soppiantato l’Impero Romano, grandi consumatrici di selvaggina e latte e che, quindi, hanno per forza di cose cambiato in modo repentino le abitudini alimentari della penisola Italiana.

La vera rivoluzione in tavola, vista da molti all’epoca come sconcertante, si ebbe con le scoperte geografiche: se teniamo conto che la patata (diventata alimento base per milioni di Europei e che ha determinato salute e carestie di intere nazioni), il pomodoro e il mais sono originari di un altro continente, è facile comprendere come, in realtà, i concetti di “globalizzazione” e “cucina fusion” vadano anticipati di qualche secolo. Una “rete globale” nel mondo è sempre esistita, certamente con ritmi meno rapidi e con pretese meno ecumeniche di quella odierna, ma con scambi e mescolanze tra le varie culture di portata comunque fondamentale.

Perché viene considerata “fusion” una delle mode del momento come il cibo nippo-brasiliano ma non la pizza, composta da ingredienti sviluppatisi a diecimila kilometri di distanza?

Dovendo anche tener conto dello scetticismo con cui, per almeno trecento anni, il pomodoro e la patata furono accolti nel Vecchio Continente (ed è una storia che di sicuro approfondirò). In sostanza è assolutamente necessario rivedere l’idea di un pianeta composto per secoli, forse millenni, da tanti mondi paralleli a tenuta stagna, con contatti fra loro quasi inesistenti: gli scambi culturali, anche decisivi, ci sono sempre stati dal basso medioevo in poi, e quasi nulla può essere più considerato “tradizionale” , almeno in senso stretto.

Questo concetto è ancora più dimostrabile osservando le cucine di paesi lontani: un altro luogo comune è pensare che solo in Europa si sia sviluppata la grande storia, con le altre aree del globo sempre marginali e con culture trascurabili. Tralasciando l’Africa subsahariana, di cui nessuno sa nulla (sia della storia che della cucina), non posso non accennare dell’Asia: a partire dalla polemica “sono nati prima gli spaghetti o i noodles?” , a cui è impossibile rispondere (un chiarimento però è doveroso: non è vero che Marco Polo avrebbe portato, dal suo ritorno in Cina, gli spaghetti ancora sconosciuti in Europa) e, in generale, quale sia il continente, tra i due, che ha influenzato più l’altro dal punto di vista culinario.
Esattamente come l’Europa, che in realtà nel Medioevo era periferia estrema del mondo civile, l’Asia ha avuto scambi continui tra stati confinanti e poi anche con gli stessi occidentali, “colonizzatori” ma a volte colonizzati culturalmente.

Cosa dire ad esempio della tempura? Celebre frittura in pastella di gamberi o verdure, che molti di voi avranno ordinato almeno una volta in un ristorante giapponese. Vale la pena raccontare la sua storia, sia perché desta interesse e sia perché spiega molto bene quel che voglio dimostrare, ossia il fatto che la cucina ha avuto influenze da paesi lontani anche nei tempi passati.
Dopo la scoperta dell’America, furono numerosi i viaggi degli Europei nelle varie parti del mondo allora conosciuto, principalmente per due ragioni: commerciali e missionarie; nel XVI secolo furono soprattutto Spagnoli e Portoghesi a spingersi oltre che nel Nuovo Mondo anche in Estremo Oriente; dunque anche in Giappone. La tempura nasce qui: un’usanza cristiana ormai in disuso voleva che, all’inizio di ogni stagione dell’anno, ci si dovesse cibare per tre giorni (mercoledì, giovedì e sabato della stessa settimana) soltanto di pesce e verdure; le cosiddette quattro tempora, “quattro periodi” in latino. I Giapponesi fecero loro la tradizione del pesce fritto durante questo periodo di magro per poi conservarla anche dopo la decisione di mandare via i missionari portoghesi. C’è da aprire una parentesi, magari più prettamente storica: all’inizio i Giapponesi avevano accettato di buon grado l’avvento dei missionari spagnoli e portoghesi, per bilanciare il potere del clero buddista, allora molto forte. Tuttavia questa apertura si trasformò presto in diffidenza, per paura che a loro volta i cristiani sarebbero diventati troppo popolari, minacciando l’autorità dell’Imperatore: nel 1632 cinquantacinque cattolici furono crocifissi a Nagasaki, chiudendo di fatto l’esperienza missionaria nelle isole del Sol Levante e portando il Giappone all’isolamento volontario per circa tre secoli.
È proprio dall’alterazione di quattro tempora che nasce il termine “tempura” .

In epoca più recente gli esempi di fusion ante-fusion sono troppo numerosi per poter essere riportati: mi limito al pad thai, che nonostante abbia (caso più unico che raro) lo stesso nome dello Stato che ne vanta le origini e nonostante sia stato eletto dal dittatore Phibunsongkhram (1948 – 1957) come simbolo stesso dell’identità nazionale, sembra sia stato introdotto da mercanti vietnamiti o cinesi nel XVIII secolo e solo successivamente adattato al gusto e alle esigenze dei nuovi fruitori.
Le suggestioni, le curiosità ed i possibili approcci ad una storia del cibo che tenga conto degli scambi culturali tra i popoli e le necessità storiche sono, come si è visto, infinite. È dunque fuorviante ritenere la mescolanza culinaria (e non solo) tra culture diverse una prerogativa degli ultimi decenni: se è vero che il principale motore dell’evoluzione culturale dell’uomo è sempre consistito negli spostamenti e nelle migrazioni, pressoché tutta la cucina attuale si può considerare “fusion” e ben poca “tradizionale” . Gli esempi possono essere infiniti, ne ho riportati soltanto alcuni ma ci sarà sicuramente tempo e modo per riparlarne.

Sarà mia consuetudine abbinare ad ogni articolo una ricetta, connessa con l’argomento che ho appena trattato, per dare modo ai lettori di essere “attivi” e di fare propri i concetti che ho cercato di esprimere in queste poche righe. Riguardo al pad-thai, trovo ironico il constatare che uno dei condimenti basi è la cosiddetta “fish sauce” : salsa ottenuta dalla spremitura di un piccolo pesce azzurro fermentato simile alla sardina. In pratica una parente del garum romano (di cui ho parlato all’inizio), pur senza avere alcuna parentela.

PAD THAI
(per due persone)

INGREDIENTI:

160 gr di noodles di riso *
un uovo
una quindicina di gamberetti o 8-10 mazzancolle **
mezzo petto di pollo tagliato a strisce sottili **
50 gr di tofu tagliato a cubetti **
due cucchiai di arachidi tostati e poi tritati
un pugno di germogli di soia
tre spicchi d’aglio
un cucchiaio abbondante di erba cipollina tritata
il succo di mezzo lime
quattro cucchiaini di concentrato di tamarindo *
un cucchiaio di fish sauce *
due cucchiai di oyster sauce *
peperoncino a piacere
olio di semi di arachide o di girasole

* = questi ingredienti si trovano in qualunque negozio “etnico” ben fornito

** = questi ingredienti si possono usare insieme o in alternativa (io non uso il tofu)

pad thai

Preparazioni preliminari: tagliare il pollo, sgusciare i gamberi, far tostare le arachidi senza bruciarle e poi tritarle, tritare l’erba cipollina.

Essendo un cibo da strada, la preparazione è molto veloce ed è necessario gustarlo subito. Nel wok fare soffriggere l’aglio con l’olio di semi per circa un minuto, per poi toglierlo (se rimanesse sul fuoco per più tempo diventerebbe amaro); aggiungere poi il pollo, a fiamma alta, facendo dorare bene. Quando il pollo sarà cotto aggiungere l’uovo, che poi verrà sbattuto nella pentola, i germogli e i gamberi. Far cuocere per non più di un minuto e mezzo.
Insaporire il tutto con metà delle salse e dei condimenti, mescolando: mezzo cucchiaio di fish sauce, uno di oyster sauce, il succo di 1/4 di lime, il peperoncino, tutti e quattro i cucchiaini di concentrato di tamarindo. Conviene aggiungere questi ingredienti un po’ per volta assaggiando man mano, per raggiungere la sapidità desiderata; non sarà necessario usare il sale. Poi togliere tutto dal wok e tenere da parte.

Nel frattempo saranno stati lessati (seguendo scrupolosamente i tempi e i modi di cottura scritti sulla confezione, che cambiano leggermente da marca a marca; alcuni non vanno neanche cotti) i noodles di riso in acqua moderatamente salata. Una volta scolati, facendo attenzione perché si attaccano subito fra loro (sciacquateli semmai con acqua fredda mentre, con una forchetta, li separate), farli saltare nel wok a fiamma alta, irrorandoli con il quantitativo di condimenti rimanente: l’altro mezzo cucchiaio di fish sauce, il cucchiaio di oyster sauce, il succo di lime. Dopo essere stati conditi e saltati per un minuto, ri-aggiungere in padella gli altri ingredienti precedentemente tolti, dare un’ultima mescolata e, a crudo, spolverare con l’erba cipollina e la granella di arachidi.

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Autore Davide Maniaci

Laureato in Storia, giornalista pubblicista per due settimanali locali. I miei interessi spaziano dalla cucina ai viaggi, dalla storia dell'arte alla musica rock. Tutto questo riassunto in un obiettivo: la divulgazione. Amo l'idea che chiunque possa sapere tutto e nel mio piccolo provo a realizzarla. Curo una rubrica di cultura gastronomica su ilovefoods.it dal 2015.

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