Ai miei nonni.
C’era un tempo in cui la Sicilia, terra dove, per chi scrive, inizia e finisce tutto, era davvero il centro dell’universo. Un tempo in cui un celebre geografo, Idrisi, scriveva di Palermo come “il massimo e splendido soggiorno; la più vasta ed eccelsa metropoli del mondo” . Non è un caso che egli fosse arabo: il periodo della nostra storia riguarda quei duecento anni in cui l’isola fu invasa, conquistata e trasformata per sempre dall’invasione del popolo musulmano (che, ai tempi, coincideva con “arabo” ) che stava interessando gran parte del Mediterraneo.
Bisogna immaginare un’atmosfera da Mille e una notte: harem, minareti, sofisticati sistemi di irrigazione, intellettuali raffinatissimi ed una cultura capziosa, profonda, articolata. Di edifici ne sono rimasti pochi: i Normanni, con la successiva invasione e conquista, hanno deciso di distruggere quanto possibile o di convertire le moschee in qualcos’altro; in quest’ultimo caso le testimonianze sono numerose e straordinarie. Chi, se non ci è stato, non ha mai visto immagini di San Giovanni degli Eremiti a Palermo o del duomo di Cefalù?
Tuttavia, tanto sono esigue le tracce autentiche in campo architettonico tanto sono numerose quelle in campo gastronomico, migrate poi dalla Sicilia all’Italia tutta nel corso dei secoli. Due esempi significativi: la pasta ed il riso. Quest’ultimo, cereale originario dell’Asia, era già conosciuto dagli antichi Romani; che, però, lo sfruttavano più per fini medici che alimentari, sotto forma di decotto. Furono gli arabi, che già lo coltivavano in nord Africa, ad introdurlo in Sicilia ed a renderlo un cibo comune (per poi, qualche secolo dopo, essere trapiantato nella Pianura Padana, che tutt’ora lo considera un prodotto “tipico” ).
Riguardo alla pasta, dobbiamo fidarci di Idrisi, che abbiamo già incontrato, che scrive: “vi è l’abitato di Trabia, sito incantevole (…) con una bella pianura e vasti poderi, nei quali si fabbricano i vermicelli in quantità tale da approvvigionare (…) i territori musulmani e cristiani, dove se ne spediscono consistenti carichi… “ . Il testo, dal “Libro di Ruggiero II” , è datato 1154; quindi ben prima del ritorno in Occidente di Marco Polo con i famigerati spaghetti cinesi che certamente esistevano e certamente erano stati assaggiati dal mercante veneziano: si trattava però di due ricette diverse, sviluppatesi in modo parallelo a decine di migliaia di kilometri di distanza. Intendiamoci: il grano in Sicilia era coltivato già in epoca Romana, ma fu sotto il dominio arabo che si perfezionarono le tecniche di lavorazione per produrre, appunto, gli antenati dei vermicelli. Che, visti i “consistenti carichi” , dovevano avere molto successo anche altrove.
Non mi interessa qui di parlare delle materie prime introdotte in Sicilia, anticamera dell’Europa ed estrema appendìce del Mondo Arabo in quel periodo (la canna da zucchero, le arance, l’anice, il sesamo), ma delle ricette, molto più interessanti. Come la pasta con le sarde: si racconta che un generale arabo, Eufemio, appena sbarcato, non sapeva come sfamare le sue truppe; prese quello che trovò (pesce azzurro, finocchietto, uva passa) unendolo alla pasta, già presente, e allo zafferano, altro dono musulmano.
O come certi dolci, complessi, sovrabbondanti, dalle forme complicate: la cassata (nome che deriva dall’arabo qas’at), che nacque come involucro di pasta frolla ripiena di ricotta di pecora e dei nuovi prodotti: mandorle, scorze di agrumi, zucchero; tutto cotto al forno. Verrà raffinata nel corso dei secoli con la pasta di mandorle ed un disegno via via più elaborato e barocco. Ma la prima versione, più semplice e infornata o fritta, si può ancora trovare come specialità soprattutto nella zona del trapanese. Altrettanto interessante è la storia della sfincia (dall’arabo isfang, “piccola spugna”), dolce meno conosciuto che si consuma soprattutto il giorno di San Giuseppe: piccoli dischi di pasta fritta, spugnosi (per l’appunto), addolciti con lo zucchero; in seguito le suore del Monastero delle Stimmate a Palermo perfezionarono la ricetta, aggiungendo prima il miele e, successivamente, la panna. I conventi in Sicilia hanno, del resto, sempre dato grandi soddisfazioni: furono le monache di un altro luogo sacro palermitano, il Convento della Martorana, a inventare la pasta di mandorle, poi chiamata pasta reale e, di conseguenza, il marzapane con le sue opulente forme di frutti. Che in Sicilia viene infatti ancora chiamato “frutta di Martorana”.
Un’altra leggenda vuole che, in un inverno più freddo del solito, approdò in un porto (alcuni sostengono a Palermo, altri a Siracusa) una nave carica di grano; dato il periodo di carestia, non c’era tempo di macinare o lavorare il cereale. Fu subito bollito e mangiato. Una volta saziata, la popolazione pensò a come celebrare quella giornata e a come rendere prelibato questo nuovo piatto: quest’ultima cosa fu piuttosto semplice; è infatti guarnendo questa base di grano lessato con zucca candita, ricotta di pecora e, in seguito, cioccolato e cannella che nacque la cuccìa, un dolce che tuttora si consuma nella giornata di Santa Lucia, in cui per tradizione i siciliani non fanno uso di prodotti a base di farina.
Sempre a base di grano duro è il piatto forse più celebre tra quelli di origine araba in Sicilia: il couscous, qui chiamato cuscusu (da pronunciarsi “cùscusu”); la tecnica di lavorare la semola con le mani e di cuocerla a vapore è di chiara origine nordafricana. Ma, negli stretti vicoli di Mazara del Vallo (in cui non per niente esiste, da mille anni, un quartiere chiamato “casbah” uguale in tutto e per tutto alle medine islamiche) e delle altre città su quel tratto di costa arso dal sole distante poche miglia dalla Tunisia, la ricetta si è evoluta in qualcosa di diverso: alla carne è stato sostituito il pesce, alla cottura al vapore è subentrato l’assorbimento in un brodo di mare. Il piatto è eccezionale, un marchio di fabbrica, tanto che a fine settembre si svolge davanti alle commoventi spiagge di San Vito Lo Capo il CousCous Fest, concorso con cibo, musica e cuochi da tutto il mediterraneo. Per dare la giusta celebrazione ad una ricetta nata quando aveva ancora un po’ di senso parlare di “cucina fusion” .
CUSCUSU TRAPANESE
(per quattro persone; la ricetta è molto elaborata, consiglio di prendersi un pomeriggio)
– 1,5 kg circa di pesce da zuppa (triglia, gallinella, scorfano, grongo…). In teoria non ci vanno molluschi e crostacei, poi ognuno mette quel che preferisce (nel caso: cozze e canocchie)
– verdure per brodo (due carote, due cipolle, sedano)
– due spicchi d’aglio
– farina 00 (per addensare il brodo)
– una latta di passata di pomodoro
– 200/250 gr di couscous precotto (come quello di Libera)
– una foglia di alloro
– occorrente per un pesto di mandorle (una busta di mandorle bianche pelate, pepe in grani, cannella, un pugnetto di prezzemolo)
– olio, sale
– mezzo bicchiere di brandy (facoltativo)
Operazioni preliminari: pulire il pesce, squamandolo e facendo i filetti, conservando teste e scarti (tranne le interiora, che vanno gettate).
Con gli scarti fare un brodo, detto anche ‘fumetto’ : fare a pezzi grossolani una carota, una costa di sedano e una cipolla a quarti, fare soffriggere in olio, aggiungere le teste e gli scarti del pesce, fare rosolare un pochino, aggiungere un cucchiaio di farina (fuori dal fuoco), mescolare, fare rosolare un pochino (attenzione che la farina attacca, girare spesso). Poi si può sfumare con il brandy, lasciando sfumare e poi aggiungere un bel mezzo litro d’acqua, lasciando andare almeno per 30 minuti. Poi lo filtrare bene e mettere da parte.
Preparazione: in una pentola soffriggere sedano e carota a dadini (nome tecnico del taglio: brunoise) e aglio intero (che dopo un minuto verrà tolto). Quando le verdure sono soffritte aggiungere la passata di pomodoro, magari non tutta subito, e una foglia di alloro. Far asciugare un po’ il sugo e poi aggiungere i filetti di pesce, cuocendoli. Attenzione: il pesce cuoce in pochissimo tempo, non bisogna esagerare con la cottura o si sfalda e noi non vogliamo che si sfaldi. I filetti vanno salati prima di metterli in padella.
Quando il pesce sarà cotto, toglierlo delicatamente dalla pentola, metterlo da parte e restringere ancora un po’ il sugo per 2-3 minuti, aggiustandolo di sale. Se si vogliono mettere le cozze bisogna farle aprire a parte, filtrare il loro liquido ed aggiungerlo al sugo (in quel caso il sale nel sugo non andrà messo). Se si vogliono mettere le canocchie si deve cuocerle nel sugo insieme al pesce: anche qui, cottura rapidissima.
Nel frullatore fare una specie di pesto con le mandorle, un po’ di cannella, pepe in grani, prezzemolo, olio, sale ed un po’ d’acqua.
Ultime operazioni: incorporare il pesto al sugo (che deve essere denso) e mescolare a fiamma spenta. Cuocere il couscous seguendo le istruzioni della confezione: in teoria basta metterlo a bagno in acqua calda per 5 min. Noi lo metteremo a bagno nel fumetto di pesce anziché nell’acqua calda.
Il piatto va servito così: il couscous mescolato al sugo+pesto, i filetti di pesce accanto. Fumetto di pesce servito a parte, chi vuole può ulteriormente usarlo per irrorare il couscous.
Photo Credit:
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